Vittorio Zucconi, la Repubblica 2/12/2012, 2 dicembre 2012
JOVAN, LA TRAGEDIA DEL SUPERUOMO DEL FOOTBALL UCCIDE LA COMPAGNA E SI SPARA DAVANTI AL COACH
Era arrivato allo stadio al volante della propria Bentley nera. Se ne è andato dentro il furgone bianco dell’obitorio, suicida dopo un omicidio, un metro e novanta per centotré chili di nulla dentro il sacco di plastica del medico legale.
Jovan Belcher era un superuomo, uno dei 1.696 giocatori della Nfl, la lega del football, che per cinque mesi all’anno più di 110 milioni di spettatori sognano di essere e sarebbero pronti a spezzarsi, drogarsi, paralizzarsi o morire pur di essere al loro posto. E la morte, per la propria fidanzata, con il nome tragicamente profetico di Kassandra Perkins e per se stesso, è esattamente quello che Belcher ha trovato a 25 anni. Un mese dopo avere messo una foto su Facebook con la dicitura: «Felice festa del Ringraziamento per tutti dalla nostra famiglia».
La sua, consumata in una mattinata grigia del Missouri, accanto allo stadio dove giocava da difensore con la uniforme dei pessimi Chiefs di Kansas City, è una storia già vista nella atrocità e negli ingredienti. Di nuovo i soldi, troppi e troppo in fretta, le porcherie ingerite e iniettate, la gloria effimera, le sconfitte, l’adorazione del pubblico divenuta odio e naturalmente, sempre la pistola.
È la parabola, dal nulla di un ghetto nero di Long Island dove era nato alla realizzazione di un sogno fra gli eletti della Lega Pro, di un giovane uomo schiantato da una vita troppo più grande anche del formidabile fisico, che ha condannato una donna colpevole soltanto di essere una donna. Un colosso capace di inchiodare al suolo altri mostri come lui lanciati in corsa, ma non di reggere la responsabilità di una neonata di due mesi che la sua vittima gli aveva appena dato.
Belcher aveva dormito a casa di lei, a Chrysler Avenue, mentre fortunatamente la neonata era dalla nonna materna. In un grande magazzino di Kansas City è ancora aperta la lista per i regalini alla bimba. Al risveglio, fra i due era scoppiata una lite, probabilmente per gelosia. Anche lui, come tutti questi idoli di terracotta, viveva perennemente circondato da sciami di donne, come di uomini, cortigiani pronti a tutto pur di spremere qualche dollaro. Il suo ingaggio era di due milioni di dollari annui.
Le ha sparato, l’ha uccisa. Si è messo alla guida della Bentley nera. Ha raggiunto lo stadio di Arrowhead, punta di freccia, dove avrebbe dovuto fare l’ultimo allenamento prima della partita di oggi. Nel parcheggio, ha incontrato l’allenatore, Romeo Crenell e il manager della squadra, Scott Pioli, che lo hanno visto scendere con l’arma in pugno. «Sono venuto qui soltanto per ringraziarvi della meravigliosa opportunità che mi avete offerto», ha detto. E mentre i due dirigenti cercavano di dissuaderlo, si è ucciso.
La storia sembra sconvolgente soltanto a chi non voglia sapere le nefandezze che si nascondono sotto quelle uniformi da gladiatori high-tech, dietro quei muscoli scolpiti da anni di sacrifici disumani e di trattamenti farmacologici ipocritamente proibiti. In un mondo come il football americano, dal quale Belcher era entrato come riserva delle riserve, per passare titolare al seguito delle barelle che portavano via i compagni rotti, si deve essere in campo a qualsiasi costo. Tutti devono imparare a vivere con “the juice”, il succo delle siringhe, nello slang degli spogliatoi.
Poi, arrivano le esplosioni, non soltanto di legamenti, e muscoli, ma di anime. Ogni anno ci sono dozzine di incidenti con armi da fuoco, risse sanguinose dentro e fuori i club dove i giocatori scaricano la proprie tensione e la furia degli steroidi iniettati. Cinque anni or sono, un grande del wrestling, Chris Benoit, uccise la moglie e il figlio, prima di farsi fuori, nella cantina di casa propria. Era gonfio di ormoni.
Plaxico Burress dei New York Giants freschi di vittoria nel campionato, si sparò sulle gambe, in un locale di Manhattan. Un altro gigante di questo sport, Ben Rothlisberger, il quarterback dei celebri “Steelers” di Pittsburgh, il giocatore più importante, abusò di una donna nel gabinetto di una taverna. Non si può ufficialmente accusarlo di stupro soltanto perché la vittima, al momento del processo, improvvisamente modificò la deposizione.
Non potrà più ritrattare nulla Kassandra, la solita donna travolta dalla violenza, che lo ha raggiunto alla Morgue di Kansas City. E per sua fortuna non potrà ricordare la bambina scampata all’orrore di Chrysler Avenue. La polizia non fa ipotesi sulle cause, sui moventi, ma aveva certamente contributo a schiantare la mente di questo ragazzo il disastro della squadra per la quale lavorava, i disastrosi eppure amatissimi Chiefs, sconfitti in dieci degli ultimi undici incontri.
Sul suo fragilissimo ego, prima gonfiato dalla droga del successo e poi distrutto dall’insuccesso dovevano aver pesato gli insulti, le maledizioni, i boati dei tifosi che in 80 mila avevano affollato i social network per coprire la squadra di improperi. Nel blog dei seguaci dei Chiefs qualcuno ha scritto ieri sera: «Strano che non abbia sbagliato la mira, scarso come era». Oggi i Chiefs non giocheranno. Non serve un’altra maledetta domenica dopo un maledetto sabato.