Francesco Guerrera, La Stampa 3/12/2012, 3 dicembre 2012
«Forse è venuto il momento di vendere qualche pezzo della nostra collezione d’arte moderna». Per capire la psicologia di Wall Street, bisogna parlare con le mogli dei banchieri
«Forse è venuto il momento di vendere qualche pezzo della nostra collezione d’arte moderna». Per capire la psicologia di Wall Street, bisogna parlare con le mogli dei banchieri. Quella frase, uscita dalla bocca con molto rossetto ma senza ironia di una delle «first ladies» della finanza statunitense, incapsula il momento difficile dei piani alti del settore bancario. La collezione - che ho visto di persona ed è veramente ottima - è il frutto di decenni di bonus, il prodotto elegante e costoso di una carriera nella corsia di sorpasso del capitalismo. Ora però il raffinato banchiere, la bella moglie, e molti altri come loro, sono al bivio: dopo la crisi finanziaria del 2008, le buste paga che permisero di comprare quadri di Miró e sculture di Henry Moore sono scomparse, ma lo stile di vita altissimo a cui sono abituati è difficile da abbandonare. Negli anni delle vacche grasse, novembre e dicembre erano mesi fantastici per New York, la City di Londra e le altre capitali della finanza: dopo un anno di duro lavoro, banchieri ed operatori di Borsa aspettavano con gioia, soddisfazione e trepidazione di intascare bonus principeschi. Per chi, come me, ha l’onore e l’onere di stare dietro ai grandi del denaro, il periodo pre-natalizio era passato a respingere inviti a bere un altro bicchiere di Dom Perignon in ristoranti d’alto rango. E a ripetere regole deontologiche su pagamenti di cene che sapevo avrebbero fatto rabbrividire i contabili del mio giornale. Non quest’anno: le scosse di assestamento del terremoto finanziario del 2008 stanno facendo tremare i portafogli di Wall Street. La regola semplice ed efficace alla base della finanza mondiale - un’industria dedicata a muovere denaro tra i vari agenti economici in cambio di una fetta sostanziosa dei ricavi - è stata compromessa, forse fatalmente, dal disastro di quattro anni fa. Le previsioni variano ma anche le stime più conservatrici predicono che i bonus del 2012 caleranno del 30-40% dal livello, pure non elevatissimo, dell’anno scorso. E non tutti gli incentivi saranno in contanti. Le nuove regole del gioco del dopo-crisi, almeno in America, stipulano che due-terzi dei bonus siano pagati in azioni delle banche che non possono essere vendute per anni. In realtà, ricevere un bonus dovrebbe già essere un privilegio in un settore che ha perso più di 300.000 posti di lavoro negli ultimi anni. Da giganti americani come Citigroup e Goldman Sachs a rivali europee come Ubs e Deutsche Bank, le banche occidentali hanno buttato fuori dipendenti come fossero alberi di Natale il giorno dopo la Befana. Per i ragazzi di Occupy, e gli altri critici di Wall Street, questa è la giusta fine per una classe dirigente grassa, avida ed arrogante. Perché preoccuparsi di un banchiere che è costretto a vendere un Miró per pagare il botox alla moglie quando ci sono milioni di senza-lavoro da Phoenix a Palermo? Invece di lavorare per dieci milioni l’anno, i signori e le signore nei gessati si dovranno «accontentare» di un milione o due. Sarà dura ma ce la faranno. Argomenti ragionevoli e forse anche «giusti» dal punto di vista etico ma che però dimenticano due fatti fondamentali della finanza: è un settore pressoché indispensabile per la crescita economica; ed è l’unica industria in cui la maggioranza dei lavoratori sono motivati esclusivamente dal denaro. La prova del primo punto sta proprio negli effetti rovinosi della crisi del 2008. Il fallimento di una American Airlines - la più grande compagnia aerea americana o della General Motors - il gigante automobilistico di Detroit - fa male ai dipendenti e a agli azionisti ma non ha la capacità di distruggere l’economia mondiale. Bastò invece il collasso di una banca d’affari importante ma non grandissima come la Lehman Brothers per spingere il mondo intero nella recessione, scioccando i mercati e paralizzando il commercio mondiale. E’ una asserzione forse sgradevole ma vera: senza la finanza e i banchieri, l’economia non si può muovere, ma senza il denaro i banchieri non si muovono. Privati dell’incentivo monetario, gran parte di banchieri ed operatori utilizzerebbero la loro intelligenza e talento in maniera diversa. Ho perso ormai il conto dei mancati fisici, scienziati, maestri di scuola, scrittori e matematici che sono finiti in giacca e cravatta per via delle profumatissime ricompense offerte dalla finanza. «E’ il dilemma di noi tutti - mi ha detto un signore di Wall Street -. Vale la pena lavorare come cani tutti i santi giorni se la remunerazione non è più la stessa?». Il pericolo non è tanto che lui, o quelli come lui, lascino. Come i vecchi operai di fabbrica, i veterani della finanza non sanno fare altro e non sono tipi da pensionamento anticipato. Il vero problema è se i giovani di belle speranze di Harvard, Oxford e della Bocconi decidono in massa che la finanza non fa più per loro, perché la vedono come sporca, poco lucrativa od entrambe. O se le banche, incapaci di fare soldi come un tempo, smettono di assumere. Se ciò accadesse, il riflesso condizionato dell’opinione pubblica sarebbe quello di applaudire il ridimensionamento della finanza. Attenzione, però, alle conseguenze a lungo termine. Un «drenaggio dei cervelli» in un settore così fondamentale potrebbe avere serie ripercussioni per il resto dell’economia. La storia del capitalismo insegna che, dopo questo periodo di tumulto e cambiamento radicale, raggiungeremo un «equilibrio», probabilmente con salari più bassi e banchieri diversi, motivati da fattori non solamente legati al soldo. Ma ci vorrà del tempo, forse una generazione intera, perché la manovalanza del denaro impari nuove regole e si adegui a stili di vita diversi e, diciamolo chiaramente, inferiori. Nel frattempo, gli slogan di Occupy dovranno trovare modo di co-esistere con le collezioni d’arte moderna dei ricchi di Wall Street. Che ci piaccia o no.