Osvaldo De Paolini, Il Messaggero 2/12/2012, 2 dicembre 2012
TOBIN TAX, IL MODELLO FRANCESE
Davvero non si comprende l’ostinazione con la quale il governo italiano sta procedendo verso l’introduzione di una Tobin Tax inutilmente punitiva quanto dannosa per il Paese. Tanto più che a Bruxelles è tuttora in discussione una imposta analoga, che sarà però varata con un procedimento di cooperazione rafforzata. E i motivi sono chiari: visto l’impatto che una simile norma avrebbe sui singoli sistemi finanziari e sulla delocalizzazione di mercati e intermediari, essa non può che maturare in un contesto di ampio accordo europeo, il solo modo per limitare la fuga di risparmiatori e investitori.
Quella fuga di risparmiatori e investitori che altrimenti si avrebbe verso mercati meno punitivi.
Non parrà superfluo ricordare che la tassa sulle attività finanziarie proposta dalla Commissione europea è stata bloccata dall’opposizione di numerosi Paesi, tra cui quelli (per esempio la Svezia) che in passato ne hanno sperimentato in proprio l’applicazione e le relative nefaste conseguenze sul sistema finanziario nazionale. E non è per caso che dagli 11 paesi promotori dell’iniziativa di cooperazione rafforzata, in particolare dalla Germania, siano recentemente emerse indicazioni circa un probabile rinvio nei tempi di introduzione dell’imposta (non prima del gennaio 2016).
È pur vero che la Francia non ha esitato ad anticipare i tempi introducendola ad agosto, ma la Tobin Tax varata dal governo Hollande (ancorché motivata da ragioni elettorali) ha caratteristiche decisamente meno punitive e soprattutto meno dannose rispetto a quella concepita dagli specialisti del ministero dell’Economia e attualmente all’esame della Commissione Bilancio del Senato.
Ora, non ci vuole un grande esperto per capire che la Tobin Tax all’italiana è squilibrata sia in relazione all’ambito di applicazione soggettivo sia a quello oggettivo. Appare infatti inconcepibile che per le transazioni eseguite fuori dal territorio dello Stato l’imposta sia dovuta unicamente se uno dei contraenti è residente. In tal modo le operazioni tra intermediari e investitori esteri (banche, fondi d’investimento, hedge fund, eccetera) eseguite al di fuori dei mercati regolamentati italiani - quindi negli Otc delle piazze inglesi, americane o svizzere, oppure nei cosiddetti dark pool - risulterebbero esenti dall’imposta con grave danno per risparmiatori e intermediari italiani. Favorendo, paradossalmente, intermediari esteri e mercati che garantiscono livelli di trasparenza assai discutibili.
Privo di senso sembra inoltre l’ambito oggettivo di applicazione. Posto che l’aliquota proposta per la compravendita di azioni (lo 0,05% sul controvalore) appare esagerata alla luce anche di altre esperienze, l’ipotesi di generica tassazione delle transazioni sugli strumenti derivati (anche qui l’aliquota è dello 0,05%) è addirittura inaccettabile. In primo luogo perché si andrebbe a incidere pesantemente su operazioni di copertura abitualmente realizzate dalle imprese a fronte di rischi tipici della gestione nonché dalle banche, con conseguenti impatti su disponibilità e costo del credito destinato a famiglie e imprese. In secondo luogo, il valore nominale dei contratti preso a base dell’imposizione rappresenta un mero riferimento e non un effettivo valore di scambio: di conseguenza l’applicazione dell’imposta risulterebbe fortemente distorsiva con esiti paradossali e un’incidenza sproporzionata sull’effettivo contenuto economico delle transazioni.
Peraltro, le aspettative formulate nella proposta del governo, difficilmente verrebbero confermate: anzitutto perché il danno che ne riceverebbe il mercato è probabilmente assai superiore alle già disastrose previsioni dei tecnici del Tesoro (meno 30% l’attività sulle azioni e meno 80% quella sui derivati): ne verrebbe gravemente minata la sopravvivenza della borsa italiana quale canale di finanziamento alternativo al credito bancario; in secondo luogo perché il gettito destinato alle casse del fisco (previsto in 1.088 milioni se l’anno di riferimento fosse il 2011) fatalmente si ridurrebbe a poca cosa in un tempo assai breve.
La conclusione è che se il Parlamento non cambierà la norma proposta del governo, magari avvicinandola alla versione francese, possiamo fin d’ora cominciare a dire addio al sogno, che fu anzitutto di Tommaso Padoa Schioppa ministro dell’Economia, di una «Piazza finanziaria italiana» degna di questo nome. Con tanti saluti a decine di migliaia di posti di lavoro.