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 2012  dicembre 02 Domenica calendario

La grande paura della bancarotta è passata ma le nubi grigie continuano a sorvolare sui cieli dell’economia argentina, stretta fra un esplosivo mix di autarchia, rigidi controlli valutari e la scure delle domande giudiziarie ereditate dalla questione mai completamente risolta dei tango-bonds

La grande paura della bancarotta è passata ma le nubi grigie continuano a sorvolare sui cieli dell’economia argentina, stretta fra un esplosivo mix di autarchia, rigidi controlli valutari e la scure delle domande giudiziarie ereditate dalla questione mai completamente risolta dei tango-bonds. Il timore di un nuovo default si è materializzato qualche giorno fa con la sentenza di un giudice statunitense che ha dato ragione ai detentori dei tango bonds rimasti esclusi dalla ristrutturazione del debito conclusasi nel 2010. Secondo Thomas Griesa l’Argentina deve pagare 3,3 miliardi di dollari (tra capitale e interessi) ai quei fondi d’investimento che a Buenos Aires vengono chiamati come «avvoltoi», perché si specializzano nel rastrellare titoli di Paesi in default per poi sperare di recuperare capitale e interessi in via giudiziaria. La Corte d’appello ha poi accettato il ricorso presentato dal governo della presidente Cristina Fernandez de Kichner, posticipando la soluzione della questione alla fine di febbraio e permettendo di fatto il pagamento delle rate a quegli investitori che avevano invece accettato a suo tempo il concambio dei loro titoli e che rischiavano di restare a mani vuote. La Casa Rosada, ora, prende tempo e prepara una nuova offerta, ma è chiaro che le ferite della crisi del 2002 non sono ancora state rimarginate. «È stata una settimana dura ha detto la Kirchner - hanno voluto piegarci, ma non ce l’hanno fatta. Noi non cediamo agli avvoltoi stranieri che vogliono fermare questo processo di emancipazione». A metà settimana, durante un vertice bilaterale con la presidente brasiliana Dilma Roussef, la Kirchner ha esortato i paesi vicini a muoversi compatti contro il «neocolonialismo giudiziario». «Con sentenze come questa cercano di bloccare la nostra crescita, lo sviluppo dei Paesi emergenti dell’emisfero Sud che hanno finalmente rialzato al testa». Dilma Roussef, a suo fianco, non ha fatto una piega, preoccupata molto di più per i dazi commerciali che l’Argentina impone da tempo al Paese vicino. Tutto si muove, ma a Buenos Aires da tempo si naviga a vista. La sensazione diffusa è che il giocattolo si possa rompere, nonostante i proclami sempre più belligeranti della stessa Kirchner. Da un anno il suo governo ha dichiarato la guerra al dollaro, tradizionale bene rifugio degli argentini, unica salvezza davanti alle cicliche ascese e ricadute della valuta locale. Dollari che si tenevano sotto il materasso per poi permettersi un viaggio all’estero o un’acquisto fuori dal comune e che venivano usati in tutte le transazioni importanti, dall’acquisto di case o terreni alla compravendita di auto e prodotti importati. Nei momenti difficili queste riserve evaporavano, una fuga di capitali che ha fatto spesso traballare l’intero sistema. Con le nuove misure imposte dal governo è diventato praticamente impossibile per un argentino giustificare l’acquisto di dollari al cambio ufficiale, un dollaro a 4.50 pesos, e così è schizzato il cambio nero, oggi a 6.50. I fronti aperti dalla Kirchner sono tanti, in una strategia del muro contro muro verso tutti coloro che si mettono di traverso rispetto al suo progetto «nacional e popular». Il blocco dei prodotti importati per favorire la produzione nazionale crea problemi in diversi settori industriali e commerciali, al punto che numerose catene globali hanno deciso di chiudere le loro filiali. Altra battaglia campale è quella sui media, con la lotta senza esclusioni di colpi verso il gruppo Clarin, oppositore del governo e chiamato ad adeguarsi alla nuova legge sulla concentrazione editoriale che lo obbligherebbe a disfarsi di licenze televisive e radiofoniche. La legge è entrata in vigore tre anni fa, ma il gruppo Clarin ha ottenuto una sospensione temporanea che scade il prossimo sette dicembre, data sventolata come spauracchio nei discorsi presidenziali. «La legge sui media - spiega Martin Etchevers del gruppo Clarin - è solo una specchio legale per mettere a tacere le voci critiche. Il governo ha creato un sistema di media amici finanziati dalla pubblicità ufficiale che restano fuori dalle prerogative richieste dalle legge. Giornali, radio e canali televisivi dove determinate questioni come l’inflazione, l’insicurezza, i disservizi della pubblica amministrazione sono semplicemente ignorate». Cristina, come la chiamano i suoi, tira dritto. Ispirata forse dal modello chavista in Venezuela ha intensificato l’uso della «Cadenas nacionales» i messaggi a reti unificate che devono essere trasmessi obbligatoriamente. Discorsi in cui attacca i politici dell’opposizione, cita per nome gli editorialisti critici, esalta le conquiste sociali del suo governo. L’ultima è stata in occasione del lancio del filmdocumentario «Nestor Kirchner», biografia in video del marito ex Presidente deceduto due anni fa, finanziata con fondi pubblici. Misticismo e culto del leader, nella migliore tradizione peronista. La première è stata realizzata nel Luna Park, il mitico palazzetto dello sport degli incontri di box di Carlos Monzon, lo stesso dove si conobbero il generale Juan Domingo Peron e Eva Duarte, per tutti Evita. L’operazione revival funziona e il film è un successo di botteghino, ma il feeling di parte della tradizionale base peronista con la presidenta è scemato. I sindacati sono spaccati, il leader della Cgt Hugo Moyano, ai tempi fedelissimo scudiere di Nestor Kirchner, si è ora schierato con l’opposizione e ha organizzato il primo sciopero generale contro l’esecutivo. La grande battaglia è quella della riforma costituzionale, necessaria se la Kirchner volesse candidarsi nel 2015 per un terzo mandato consecutivo. La maggioranza non ha i numeri in Parlamento, dove è richiesto il voto di due terzi di entrambe le Camere, molto dipenderà dalle elezioni legislative del prossimo anno. Ma è difficile pensare a lungo termine. L’unica cosa certa, nelle sabbie mobili dell’Argentina di oggi, è che è impossibile fare previsioni che vadano più in là di qualche settimana.