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 2012  novembre 30 Venerdì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LA PALESTINA RICONOSCIUTA DALL’ONU COME STATO OSSERVATORE


REPUBBLICA.IT
ROMA - Sull’assenso italiano al conferimento dello status di Stato osservatore all’Onu alla Palestina "la linea del governo è stata espressa ieri dal comunicato della Presidenza del consiglio" ha dichiarato il ministro degli Esteri Giulio Terzi. "L’Italia è fortemente convinta del suo rapporto con Israele e con i palestinesi, è un rapporto di amicizia con entrambi, ed è una priorità anche il rapporto con gli Stati Uniti" ha aggiunto il ministro dopo le reazioni sia internazionali che interne sulla scelta dell’Italia. E poi ha aggiunto: "E’ "assolutamente utile" che il governo italiano riferisca in Parlamento sul voto favorevole, auspicando "un dibattito" sul tema.

Il giorno dopo lo storico voto dell’Onu sulla Palestina, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, lancia un appello per la ripresa dei negoziati di pace, a patto che Israele fermi la sua politica di colonizzazione. Una richiesta che arriva alla fine di una mattinata di tensione. In giornata Israele ha fatto sapere che intende autorizzare tremila nuovi alloggi per coloni nei territori occupati. Lo ha reso noto il sito Ynet, secondo il quale la decisione, che viene diffusa il giorno dopo il voto Onu sulla Palestina, è stata presa già ieri dal Gabinetto della sicurezza nazionale del governo Netanyahu. Un annuncio che però non è piaciuto all’Olp. Si tratta di "un’aggressione israeliano contro uno Stato e il mondo si deve assumere la responsabilità" di rispondere, ha detto Hanan Ashrawi, del comitato esecutivo dell’Olp.

La decisione italiana ha suscitato reazioni da più parti. Voci critiche si sono naturalmente levate dall’ambasciata di Israele a Roma, che ieri si è detta "delusa" dal sì italiano, e da esponenti politici. Il deputato Pdl Fiamma Nirenstein, in un editoriale pubblicato dal Giornale, attacca Monti: "Svende Israele a Bersani", è il titolo - riferito alla netta presa di posizione del segretario Pd in occasione del faccia a faccia con Matteo Renzi per le primarie del centrosinistra. La Nirenstein definisce "istituzionalmente sconvolgente la scelta di Palazzo Chigi di rovesciare con una mossa nient’affatto tecnica, ma tutta politica, le scelte di un Parlamento che da vari anni a questa parte ha fatto suo onore e vanto di essere il migliore amico europeo di Israele". E il Segretario generale di Fareitalia, Andrea Ronchi, ha chiesto a Terzi di venire a riferire in Parlamento sulla decisione, definita "inaccettabile e irresponsabile", che "rischia di isolare Israele". La comunità ebraica, con Riccardo Pacifici, ieri si è unita alla reazione di delusione dell’ambasciata d’Israele: "Una doccia fredda", ha definito il capo della comunità la decisione italiana. Voci discordanti si levano però a difendere la scelta del governo Monti. Gad Lerner invita i leader della comunità italiana a non "chiudersi a riccio": "Il rapporto organico da loro instaurato con la destra berlusconiana e post-missina ci ha screditati senza recare peraltro vantaggi a Israele", scrive nel suo blog.

Nella nota della Farnesina, Terzi invece auspica anche che questo storico riconoscimento non sortisca l’effetto di esercitare "pressione" sui negoziati che anzi, devono riprendere con rinnovato vigore da parte dell’Autornità nazionale palestinese "senza precondizioni". "Sono convinto - ha concluso Terzi - che l’impegno ora è di ottenere un vero rilancio del processo di pace, sappiamo che ci sono reazioni del momento che spero possano essere riportate in un clima di mutua partecipazione e collaborazione tra israeliani e palestinesi".

Sulla dinamica della decisione, annunciata dal premier Monti a Netanyahu in una telefonata poco prima del voto all’Onu, le prime ricostruzioni indicano comunque un intervento forte e personale di Monti (mentre gli altri Paesi europei hanno annunciato la propria decisione tramite il ministero degli Esteri). Una decisione che si rivendica coerente con un percorso politico sempre chiaro: "L’assenso dell’Italia - si legge nella nota di Palazzo Chigi di ieri - è parte dell’impegno del governo nel rilancio del processo di pace con l’obiettivo di due Stati, quello israeliano e quello palestinese, che possano vivere fianco a fianco, in pace, sicurezza e mutuo riconoscimento". Una linea fortemente condivisa e promossa anche dal Quirinale.

"Nell’anno trascorso il governo ha consolidato ulteriormente il rapporto con Israele" spiegava ieri la nota della Presidenza del Consiglio, sottolineando quanto Monti abbia lavorato affinché l’assetto finale dei negoziati "si possa basare sul principio dei due Stati per due popoli", con lo Stato palestinese che sia patria del popolo palestinese, e lo Stato d’Israele come Stato ebraico, quale patria del popolo ebraico.

(30 novembre 2012)


LA REZIONE DI ISRAELE
CORRIERE.IT
Prima mossa di Israele dopo il riconoscimento Onu alla Palestina, diventato membro osservatore: il governo di Tel Aviv intende autorizzare la costruzione di 3mila nuovi alloggi per i coloni in Cisgiordania ed a Gerusalemme est.
ANCHE NELLA PARTE ARABA DI GERUSALEMME - È quanto riporta il quotidiano Haaretz, citando una fonte del governo israeliano che precisa che le costruzioni saranno realizzate anche nella parte araba di Gerusalemme est e nella cosiddetta zona E1 nei pressi della cittá, che si trova tra la parte settentrionale e meridionale della Cisgiordania. Il premier Benjamin Netanyahu si era impegnato con l’amministrazione Usa a non costruire nella zona E1 per mantenere la contiguità territoriale tra le due sezioni della Cisgiordania dove i palestinesi intendono stabilire il proprio stato.
L’OLP «UN’AGGRESSIONE CONTRO UNO STATO» - E subito arrivano le reazioni di parte palestinese: l’annunciato via libera del governo d’Israele alla costruzione di 3.000 nuovi insediamenti rappresenta «un’aggressione israeliano contro uno Stato e il mondo si deve assumere la responsabilità» di rispondere, ha dichiarato Hanan Ashrawi, del comitato esecutivo dell’Olp. Mentre il presidente Abu Mazen, lancia un appello per la ripresa dei negoziati di pace, a patto che Israele fermi la sua politica di colonizzazione.
TERZI RIFERIRA’ IN PARLAMENTO- Venendo alla posizione italiana (govedì il nostro rappresentante all’Onu ha votato sì) è «assolutamente utile» che il governo riferisca in Parlamento: lo ha affermato il ministro degli Esteri Giulio Terzi auspicando «un dibattito» sul tema. La richiesta all’esecutivo era stata avanzata venerdì da esponenti del Pdl. Un dibattito parlamentare può essere l’occasione per «discutere della strategia dell’Ue», con i Paesi europei che si sono presentati «molto divisi» nel voto all’Onu, ma che concordano sull’essere «fattori di impulso del processo di pace», ha aggiunto Terzi. L’Italia, ha proseguito, e i Paesi Ue, vogliono rappresentare un «elemento costruttivo» per il rilancio della pace nella regione.
GLI USA: «NO AD ATTI UNILATERALI»- Gli Stati Uniti che giovedì hanno votato no, ritornano sulla questione: il conflitto tra israeliani e palestinesi potrà essere risolto «solo attraverso negoziati diretti e non attraverso atti unilaterali» dice la Casa Bianca. Una risoluzione contro cui hanno votato appunto gli Usa, insieme con Israele e pochissimi altri Paesi ( sette in tutto). Washington ha assicurato in ogni caso che non esiste alcun piano di ritiro degli aiuti alla Palestina.

PEZZI DI STAMATTINA SUL CDS
FRANCO VENTURINI
C on il voto di ieri all’Onu a favore della risoluzione presentata dall’Autorità palestinese per diventare «Stato osservatore», l’Italia di Mario Monti ha compiuto una doppia svolta: ha rinunciato alla continuità rispetto alla politica estera del governo Berlusconi nel delicatissimo scacchiere mediorientale, e ha scelto di esprimere i propri convincimenti con una chiarezza che non appartiene alla tradizione compromissoria della nostra diplomazia.
Il risultato, inevitabile, è stato di attirarsi «sorprese» e «delusioni» (da parte israeliana, e in minor misura da parte statunitense) che forse ad altri Paesi, culturalmente più decisionisti del nostro, non sarebbero state nemmeno espresse. Ma in realtà la logica politica che ha guidato la scelta italiana ha una sua solida coerenza, che malgrado un animato dibattito interno (con la Farnesina più cauta di palazzo Chigi e del Quirinale) ha portato a eliminare possibili equivoci su un punto fondamentale: l’Italia mantiene pienamente i suoi legami di amicizia con Israele e continua a considerare inalienabile il suo diritto all’autodifesa e alla protezione dei suoi cittadini.
Nella conversazione telefonica che Monti ha avuto ieri con Netanyahu, e successivamente nella dichiarazione di voto al Palazzo di Vetro, questa linea è stata ribadita con forza da parte italiana proprio per rispondere alla preoccupazione principale del Primo ministro israeliano: che un ricorso dei palestinesi alla Corte penale internazionale o ad altri organismi collegati all’Onu potesse domani ostacolare il diritto alla difesa di Israele nei confronti di Hamas o dell’Iran.
Analogo discorso è stato fatto da Monti a Mahmud Abbas: l’Italia chiede, in cambio del suo voto favorevole, che l’Autorità palestinese si adoperi per riprendere i negoziati di pace senza precondizioni (cioè senza ottenere un previo blocco degli insediamenti israeliani), e che non ci sia un immediato tentativo di adesione alla Corte internazionale comunque non titolata a disconoscere il diritto di Israele all’autodifesa o ad esprimere giudizi retroattivi. Abbas ha «verbalmente» accettato, ed è in questo dettaglio che si nasconde la molla che ha spinto l’Italia verso l’attraversamento del Rubicone.
I britannici erano disposti a votare «sì» a condizione di ottenere dal leader palestinese analoghe assicurazioni, ma in forma scritta. L’Italia aveva sulle prime trovato ragionevole questa posizione, ma quando Abbas ha spiegato di non poter modificare un testo già reso pubblico e Londra ha deciso per l’astensione, si è posto il dilemma: l’Italia avrebbe fatto bene a seguire la Gran Bretagna e ad astenersi, oppure le assicurazioni verbali ottenute era tali da far preferire un voto filo-Abbas?
Se si fosse trattato soltanto di questo, forse il voto sarebbe stato di astensione. Ma esisteva nel governo anche un forte desiderio di evitare ambiguità e una ricerca di coerenza rispetto al ripetuto appoggio alla soluzione dei due Stati, quello palestinese e quello israeliano, affiancati in pace e in sicurezza. Si voleva che l’Italia trovasse la determinazione necessaria per «fare politica estera». Tanto più che una maggioranza dell’Europa spaccata si accingeva a votare a favore di Abbas, diversamente da quanto era accaduto lo scorso anno quando i palestinesi furono ammessi all’Unesco.
Così è nato il «sì» italiano, che per difendere le sue motivazioni ha ora bisogno di un seguito. Perché avrebbe poco senso dimostrare coraggio politico all’Onu se poi si resta incapaci, come Italia e come Europa, di favorire davvero la ripresa dei negoziati; di moderare davvero le nuove possibilità dei palestinesi; di contenere davvero, indirizzandole in senso costruttivo, le voglie di rivalsa di Israele. E di convincere davvero Barack Obama che nel suo secondo mandato serve un diverso e maggior impegno a favore della pace in Medio Oriente, cominciando proprio dalla guerra infinita tra israeliani e palestinesi.
fr.venturini@yahoo.com

MASSIMO GAGGI
DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK — Clima delle grandi occasioni — diplomatici e telecamere ovunque, tribune gremite — all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per la seduta nella quale, collezionando il sì di ben 138 Paesi (Italia compresa) su 193 membri dell’organizzazione, l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha ottenuto il riconoscimento di Stato non membro dell’Onu. Una maggioranza più ampia di quella prevista di 132. Solo 9 i voti contrari. 41 Paesi si sono astenuti. Quella ottenuta dalla Palestina è una condizione di osservatore (come la Santa Sede), che dà all’Autorità legittimità internazionale e, potenzialmente, la mette in condizione di adire a trattati e Corti internazionali. Ora Abu Mazen potrebbe, ad esempio, chiamare Israele a rispondere davanti alla Corte penale internazionale per quello che avviene a Gaza o nei territori della Cisgiordania occupata.
L’Onu ha vissuto una giornata di grandi emozioni, di sentimenti contrastanti, di molti dubbi sulle conseguenze politiche della risoluzione votata. È stata l’occasione di un’altra grave spaccatura dell’Europa con 15 Paesi, compresi tutti quelli mediterranei, dalla Francia alla Spagna, che hanno votato a favore della risoluzione, mentre la Germania e la Gran Bretagna si sono astenute, e gli Stati Uniti e un gruppo minoritario di altri Paesi hanno votato no. Gli Usa e Israele hanno cercato fino all’ultimo di dissuadere il capo dell’Anp, Abu Mazen, dal portare la risoluzione (definita da Hillary Clinton un «ostacolo alla pace») davanti all’assemblea avvertendo che in questo modo avrebbe provocato un ulteriore irrigidimento delle posizioni, rendendo ancor più difficile una soluzione della questione negoziata direttamente dalle due parti, come previsto dagli accordi di Oslo del 1993.
Ma il leader palestinese è andato per la sua strada, convinto che in questo modo non solo la Palestina fa un grande passo avanti verso il suo pieno riconoscimento internazionale e la formazione di uno Stato indipendente, mentre la sua organizzazione politica — i palestinesi moderati dell’Anp — viene rilegittimata come unica vera rappresentante di questo popolo, obbligando i movimenti estremisti come Hamas a riconoscere la sua leadership. È proprio la possibilità di rafforzare con questo processo la componente moderata del mondo palestinese nel duro confronto con Israele che ha spinto la maggioranza dei Paesi europei a schierarsi a favore della risoluzione.
Ma secondo gli Stati Uniti e altri Paesi europei, questo è un modo miope di affrontare una crisi che dura praticamente senza interruzione dalla fondazione dello Stato di Israele, 65 anni fa. Il perché l’ha spiegato l’ambasciatore di Gerusalemme all’Onu, Ron Prossor, che ha parlato davanti all’assemblea generale subito dopo Abu Mazen e prima del voto: gli accordi formali fin qui raggiunti prevedono esplicitamente che il processo verso la costituzione di due Stati venga gestito direttamente dalle due parti in causa con realismo e spirito di collaborazione. Trasferire la crisi all’Onu, usare l’assemblea del Palazzo di vetro come cassa di risonanza, non solo, quindi, rischia di rendere insolubili problemi già di per sé difficilissimi da risolvere, ma è anche illegale. Un punto di vista che, prima del voto, è stato ribadito anche dal rappresentante canadese — un Paese che è sulla stessa linea di Washington — mentre a sostegno della risoluzione ha parlato il rappresentante dell’Indonesia, il Paese musulmano più popoloso del pianeta. Da Gaza, un dirigente di Hamas, Ahmed Youssef, si è felicitato per la «vittoria della Palestina all’Onu».
Il momento cruciale, prima del voto, è stato, ovviamente, quello dell’intervento di Abu Mazen che ha letto con voce ferma ma senza enfasi un discorso abbastanza breve (23 minuti) attentamente calibrato nel quale alle accuse a Israele («a Gerusalemme Est l’occupazione ricorda il sistema dell’apartheid ed è in violazione della legge internazionale») sono state alternate parole di apertura: «Non siamo qui per delegittimare lo Stato di Israele ma per legittimare quello Palestinese», «vogliamo portare nuova vita nei colloqui con Israele». Ma una vera ovazione della maggioranza dell’assemblea l’ha ottenuta il ministro degli Esteri della Turchia, Paese che si pone sempre più come potenza emergente a cavallo tra Occidente e mondo islamico, che ha promesso di non dare tregua fino a quando la Palestina non sarà uno Stato indipendente con capitale Gerusalemme.
Dopo il voto, accompagnato dall’apertura di una bandiera palestinese tra i banchi arabi, le prime docce fredde per Abu Mazen: il premier israeliano Netanyahu ha definito il suo discorso «ostile e velenoso, non le parole di un uomo che cerca la pace», mentre l’ambasciatrice Usa all’Onu, Susan Rice, ha chiesto il riavvio immediato di negoziati diretti tra le due parti, sostenendo che oggi, dopo le celebrazioni, i palestinesi si sveglieranno scoprendo che nulla, per loro, è cambiato.
Massimo Gaggi

CORRIERE.IT
ROMA — La scelta compiuta ieri da Mario Monti di far votare all’Italia «sì» all’innalzamento di livello della delegazione palestinese all’Onu è stata dettata, dal punto di vista della politica estera, soprattutto dalla voglia di non rimanere isolati dai partner europei mediterranei in buoni rapporti con i Paesi arabi. In particolare, dopo che le cosiddette «primavere» del 2011 hanno fatto fuori in quelle nazioni vecchi e collaudati interlocutori. Dal punto di vista interno, la decisione, adottata tenendone del tutto informato Giorgio Napolitano, conferma la tendenza a un rafforzamento del ruolo del presidente del Consiglio nei confronti del ministro degli Esteri.
In mattinata Giulio Terzi, che era propenso per l’astensione, dichiarava: «La posizione dell’Italia la si vedrà al momento del voto». Prima delle 15, in anticipo sulla pronuncia dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Palazzo Chigi ha annunciato che il nostro Paese avrebbe appoggiato la proposta di risoluzione volta a far passare la rappresentanza palestinese all’Onu da delegazione di «ente» invitato al rango di «Stato» osservatore: «Monti ha telefonato al presidente Mahmoud Abbas (il palestinese Abu Mazen, ndr) e al primo ministro (israeliano, ndr) Benjamin Netanyahu per spiegare le motivazioni della decisione».
Una mossa malvista dal governo d’Israele. A Roma sono saliti i decibel della polemica politica interna. Tuttavia, pur essendo stati più numerosi gli applausi nel centrosinistra, può essere sommario ridurre i contrasti a uno scontro tra una parte e l’altra dello schieramento politico. «Credo di aver avuto qualche voce in capitolo in questa scelta», ha rivendicato il segretario del Pd Pierluigi Bersani. «Buona notizia», ha definito il «sì» Nichi Vendola di Sinistra ecologia e libertà. «Un errore, perché dall’autorità palestinese non è venuta mai in questo periodo una reale volontà di pace», ha commentato invece il capogruppo del Popolo della libertà alla Camera Fabrizio Cicchitto. «Sconcertante», ha giudicato il «sì» il portavoce del Pdl Daniele Capezzone, mentre Andrea Ronchi definiva la politica estera «appaltata a Bersani». L’ex missina e ex An Roberta Angelilli però ha dato voce a un’altra linea nello stesso partito: «Bene il sì».
Era stato Franco Frattini, di sicuro amico di Israele, il 20 novembre in Parlamento, a segnalare nel Pdl una disponibilità a valutare ipotesi diverse se non si fosse realizzato il proposito condiviso da Terzi e Monti di convincere tutti i 27 Paesi dell’Unione europea all’astensione: «Astenersi vuol dire non decidere».
Palazzo Chigi ha avuto contatti con l’ambasciata degli Stati Uniti a Roma e il consigliere di Netanyahu per la Sicurezza nazionale Jacob Amidror, entrambi per il «no». Poi la nota sul «sì» e Monti: «A Netanyahu il presidente, nel ribadire che questa decisione non implica nessun allontanamento dalla forte e tradizionale amicizia nei confronti di Israele, ha garantito il fermo impegno italiano a evitare qualsiasi strumentalizzazione che possa portare indebitamente Israele, che ha diritto a garantire la propria sicurezza, di fronte alla Corte penale internazionale».
Appoggi ai palestinesi furono garantiti da Aldo Moro, Giulio Andreotti, Bettino Craxi. Nella scelta di Monti paiono aver contato più crescita del consenso sulla risoluzione e desiderio di rafforzare Abu Mazen che la tradizione.
Maurizio Caprara