Foglio dei Fogli 26/11/2012, 26 novembre 2012
Prestiti cattivi, le banche rischiano il crac – Dopo i titoli tossici (2008-2009) e l’esposizione verso i debiti sovrani dei paesi in difficoltà (2010-2011), adesso a minacciare la stabilità del sistema bancario italiano sono le perdite sui crediti
Prestiti cattivi, le banche rischiano il crac – Dopo i titoli tossici (2008-2009) e l’esposizione verso i debiti sovrani dei paesi in difficoltà (2010-2011), adesso a minacciare la stabilità del sistema bancario italiano sono le perdite sui crediti. In pratica i soldi prestati che difficilmente torneranno a casa. «Il fardello pesante di oggi è figlio della crisi e dell’epoca del credito facile degli anni dal 2003 al 2007. Imprese e famiglie vanno in difficoltà e non ripagano i prestiti contratti. E le banche subiscono il colpo a posteriori». [1] Ma quest’ultimo buco, che secondo vari addetti ai lavori sta diventando più minaccioso dei precedenti, non sembra fare breccia nel dibattito politico e giornalistico che ancora si spende (molto popolarmente) in appelli a prestar denaro a famiglie e imprese. La zavorra che immobilizza le mani dei banchieri è dunque quella dei prestiti cattivi. Questo fardello di crediti deteriorati lordi – calcola R&S Mediobanca – vale solo per le prime quattro banche italiane 166 miliardi di euro. A partire dalle sofferenze, le più problematiche, passando per gli incagli fino ad arrivare alle esposizioni ristrutturate e scadute. Verranno mai restituiti questi soldi? E in che misura? Per i nove maggiori istituti, in sei anni, i crediti deteriorati sono aumentati in media del 164%, toccando i 190 miliardi. [2] I primi due big del credito fanno ovviamente la parte del leone. «Lo stock per Unicredit ha toccato a fine settembre 2012 la cifra di 80,4 miliardi; Intesa Sanpaolo ne ha per 47,5 miliardi. Mps vanta uno stock di crediti dubbi per un valore di 28,2 miliardi e Ubi ne ha per 10,3 miliardi. Si aggiungano i 15,8 miliardi del Banco Popolare e le prime 5 banche del paese arrivano ad avere in pancia prestiti a rischio per oltre 181 miliardi». [1] Ma non è tanto l’opera di bonifica (con conseguenti perdite) a preoccupare i banchieri. È il continuo accumulo a destare più inquietudine. Ogni trimestre infatti rettifiche e accantonamenti sui crediti tendono a salire. «Per Unicredit nuovi flussi di incagli e sofferenze sono saliti di 9 miliardi in più rispetto a un anno fa. Per Intesa stock dei crediti deteriorati lordi sono saliti in un solo anno di 3,4 miliardi». [4] Davi e Pavesi: «Solo nell’ultimo trimestre la progressione è stata del 5% e su base annua l’incremento è stato del 17%. E pare che dopo più di due anni di crescita esplosiva ancora non si veda la fine». [1] Oggi in Italia il volume dei prestiti è nettamente superiore a quello dei depositi dei clienti custoditi dalle banche stesse. Questi ultimi valgono 2.340 miliardi di euro, i crediti 2.860 miliardi. Ciò significa che gli impieghi sono del 22% superiori della raccolta ovvero che esistono prestiti per circa 500 miliardi di euro che non possono essere finanziati dai risparmi depositati in banca. In tempi normali non sarebbe stato un problema. Ma con una recessione giunta al sesto trimestre consecutivo (la più lunga nella storia della Repubblica), è ovvio che questo dato pesa più che in passato quando veniva compensato sul mercato emettendo dei bond oppure contraendo prestiti alle altre banche. Oggi l’unica alternativa è ridurre i prestiti in modo da allinearli ai livelli dei depositi. [3] Il nodo è dunque lì: continuare a dare soldi nel momento in cui quelli già erogati non tornano a casa. Il certificato di garanzia a questa preoccupazione ce lo ha messo anche Mediobanca in un recente studio che analizza i bilanci 2011 di 33 banche europee. Mucchetti: «Il punto debole delle banche italiane è la crescente massa dei crediti dubbi, ormai all’85% dei mezzi propri. L’Europa viaggia sul 40%. La Scandinavia sul 15. Le prime 10 banche quotate in Borsa avrebbero dunque bisogno di altri 22 miliardi di capitale. Questo non significa che tutte debbano chiedere altri denari agli azionisti. A Unicredit e Intesa Sanpaolo possono bastare gli aumenti di capitale già fatti. Fronteggeranno l’erosione dei mezzi propri determinata dalle perdite sui crediti con gli utili. Ma il Monte dei Paschi e il Banco Popolare non faranno abbastanza profitti per coprire le perdite sui crediti nei prossimi 4-5 anni». [5] Secondo Mediobanca se poniamo lo stock di credito problematico in rapporto con l’indice Core tier 1, uno dei principali indicatori del capitale, che evidenzia la solidità delle banche, otteniamo questi valori: Credem 38%, IntesaSanpaolo 59%, Bpm 63%; Ubi 73%, Unicredit 82%, Bper 109%, Mps 140% e Banco Popolare 154%. «Considerando che il range medio tra le 33 banche analizzate è pari al 49 per cento è facile trarre conclusioni». [6]. Mucchetti: «Mediobanca, a questo punto, evoca il progetto della “bad bank” a cui attribuire i crediti dubbi per liberare le banche e l’economia da quelle catene. Ma non approfondisce. Forse perché la questione diventa politica. Chi e come valuterà la qualità del credito in modo omogeneo evitando le distorsioni attuali? La Bce, motore dell’Unione bancaria europea? Bene. Ma chi metterà i capitali nella “bad bank”? La mano pubblica, si dice». [5] Eppure una parziale soluzione, percorsa in altri Paesi, ci sarebbe: vendere pacchetti di crediti in sofferenza a investitori specializzati nel recupero. «“Ormai investire in Bund o in altre asset class non offre più guadagni – spiega Alexander Holzgreve di Aktiv Capital, gruppo specializzato nei crediti in sofferenza –. Per questo molti investitori trovano interessante il mercato dei crediti deteriorati”. Li comprano (a prezzi svalutati) e, sapendo gestirli, sperano di guadagnarci sopra. In Europa – calcola Antonella Pagano di PWC – tra il 2011 e il primo semestre del 2012 le banche hanno venduto (e investitori hanno comprato) ben 62,6 miliardi di euro di crediti deteriorati. Questo ha in parte pulito i loro bilanci». [2] Ma l’Italia è stata quasi esclusa da questo grande smobilizzo. Per il solito motivo: se le banche non svalutano in bilancio i crediti dubbi, nessun investitore li potrà mai comprare. Sono sopravvalutati. Ecco perché tanti addetti ai lavori sostengono che serva qualche riforma regolamentare che dia il coraggio alle banche di far emergere il reale valore dei propri impieghi. Longo: «Per esempio la possibilità di spalmare le perdite su vari esercizi. O di creare una bad bank. O qualcos’altro. Purché si disinneschi la mina prima che scoppi». [2] Un particolare per il tutto: l’agenzia di rating Fitch ha tolto il rating alla società che recupera i crediti in sofferenza del Montepaschi «perché il gruppo non fornisce più sufficienti informazioni». A Siena correggono: siamo noi ad aver chiesto il ritiro del rating perché stiamo procedendo all’incorporazione delle controllate. Morya Longo: «Sta di fatto che questo toglie trasparenza, almeno per un po’, a un settore cruciale come quello del recupero dei crediti deteriorati. E questo non è un bene». In pratica, ad aggravare il dato dei crediti deteriorati è la scarsa trasparenza. Sia nella loro gestione che nel calcolo del loro ammontare. «Molti istituti hanno documentazione ancora cartacea e imprecisa e qualcuno neppure conosce gli indirizzi delle case su cui ha messo ipoteca. La confusione regna sovrana. E questo, soprattutto nelle banche medio-piccole, rende difficile il recupero. Dunque aggrava il problema». [2] È questa la vera notizia: per i crediti in sofferenza, nel sistema bancario italiano, non ci sono regole. Nonostante gli organi di vigilanza abbiano codificato i vari stadi di deterioramento. “Past due”: sconfinamento continuativo per 90 giorni superiore al 5% del concesso. “Incaglio oggettivo”: se il singolo rapporto rimane in rosso oltre 270 giorni sopra al 10%. Infine “incaglio”: ovvero stato di crisi conclamata. Però a questo punto le banche posso decidere se mandare la posizione “a contenzioso” (addebitando sul conto economico circa il 50% dell’ammontare del rosso), oppure continuare a tenerla aperta (accantonando molto meno). Essendo il “contenzioso” una procedura lunga, costosa e spesso inconcludente (la giustizia civile impiega in media 8-10 anni ad assegnare alla banca l’immobile dato in pegno dal debitore insolvente), le banche ci pensano bene prima di portare posizioni in tribunale. Se non c’è una possibilità di recupero certa, preferiscono “amministrare” queste posizioni. E intanto, restano, sopravvalutatissime, tra gli attivi dello stato patrimoniale. Togliendo trasparenza al reale stato di salute degli impieghi e, in definitiva, falsando i bilanci. Note: [1] Luca Davi e Fabio Pavesi, Il Sole 24 Ore 21/11/2012; [2] Morya Longo, Il Sole 24 Ore 7/10/2012; [3] Federico Fubini, Corriere della Sera 20/11/2012; [4] Fabio Pavesi, Il Sole 24 Ore 14/11/2012; [5] Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 15/10/2012; [6] Stefano Righi, CorrierEconomia 29/10/2012.