Varie, 3 dicembre 2012
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 3 DICEMBRE 2012
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite è divisa in “Stati membri” e “osservatori permanenti”. Questi ultimi si dividono in “organizzazioni osservatrici intergovernative” (71 tra cui l’Unione Europea e la Lega Araba), “entità osservatrici” e “Stati osservatori non membri”. La Palestina era un’“entità osservatrice” (come il Sovrano ordine militare di Malta, il Comitato internazionale della Croce rossa, il Comitato olimpico internazionale ecc.), giovedì 138 voti favorevoli contro 9 no e 41 astenuti l’hanno promossa a “Stato osservatore non membro” (lo stesso status del Vaticano). [1]
Nell’autunno di un anno fa, Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, chiese che il suo paese diventasse uno Stato membro dell’Onu a pieno titolo. Bernardo Valli: «Quel tentativo è fallito perché, dopo il voto dell’Assemblea generale spettava al Consiglio di Sicurezza decretare l’ammissione di uno Stato membro a pieno diritto, e gli Stati Uniti avrebbero posto il veto. Washington riteneva e ritiene infatti che si debba arrivare al riconoscimento di uno Stato palestinese attraverso negoziati con Israele». [2]
Dietro alla nuova denominazione c’è per i palestinesi un piccolo passo avanti e un grande risultato simbolico. Alberto Flores d’Arcais: «Anche se la realizzazione dell’idea di “una Terra, due Stati” resta ancora molto lontana». [3] Votare l’ammissione di un paese come “osservatore” non significa riconoscerlo diplomaticamente e quindi dichiarare ambasciata le sue rappresentanze. All’interno delle Nazioni unite il nuovo status apre tuttavia alcune porte. Valli: «Ad esempio quella dell’Organizzazione mondiale della sanità o del Programma alimentare. Quella della Corte penale internazionale comporta più problemi». [2]
Arrivato 65 anni dopo quel 29 novembre 1947 che segnò la spartizione della regione tra ebrei ed arabi, dando legittimità internazionale al futuro Israele, il voto di giovedì ha per i palestinesi un’importanza storica. [3] Ugo Tramballi: «In un conflitto che continua da più di un secolo nessuno dei suoi protagonisti può rivendicare di essere sempre stato dalla parte della ragione. Tutti hanno avuto il tempo di recitare almeno una volta il ruolo di vittima e persecutore; ognuno di aver promosso una soluzione e di averla ostacolata; di aver ucciso civili o di averlo impedito. Ma una cosa è evidente da ben 45 anni e mezzo: uno dei due attori della grande tragedia è l’occupante, l’altro l’occupato. È questa constatazione che spiega la grande maggioranza di Paesi a favore dello status di “membro osservatore”». [4]
Scontato il no di Israele e Stati Uniti, a New York l’Europa si è divisa. Alberto Negri: «Gli inglesi si sono astenuti perché alleati degli americani, non intendono irritare gli israeliani e come ex potenza coloniale sono i padri della dichiarazione di Balfour del 1917, primo passo di quello che doveva diventare lo stato di Israele nel ’48». I francesi hanno privilegiato con il “sì” i rapporti con il mondo arabo: «Il loro è un voto che “fa primavera araba” e passa all’incasso dei contratti petroliferi». La Germania si è astenuta. Il ministro degli Esteri, Guido Westerwelle: «Non è stata una decisione facile, perché la Germania condivide l’obiettivo di uno stato palestinese». [5]
L’Italia ha votato sì. Da settimane Monti e il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, spingevano perché l’Europa si presentasse unita all’Onu con un’astensione che concedesse ad Abu Mazen un risultato politico di fronte ai risultati “militari” di Hamas, ma senza tradire Israele. L’opposizione della Germania, che storicamente sente il dovere di difendere lo Stato ebraico, ha reso impossibile un voto comune. Alberto d’Argenio & Vincenzo Nigro: «Così da lunedì i paesi mediterranei dell’Unione hanno iniziato a schierarsi per il “sì”, tanto che la stessa Merkel, intimorita da un isolamento, si è riposizionata sull’astensione». [6]
Secondo gli Stati Uniti il voto di giovedì è un modo miope di affrontare una crisi che dura praticamente senza interruzione dalla fondazione dello Stato di Israele, 65 anni fa. Massimo Gaggi: «Il perché l’ha spiegato l’ambasciatore di Gerusalemme all’Onu, Ron Prossor, che ha parlato davanti all’assemblea generale subito dopo Abu Mazen e prima del voto: gli accordi formali fin qui raggiunti prevedono esplicitamente che il processo verso la costituzione di due Stati venga gestito direttamente dalle due parti in causa con realismo e spirito di collaborazione». [7]
Trasferire la crisi all’Onu è, secondo gli Stati Uniti, illegale. [7] L’ambasciatrice Susan Rice: «Siamo favorevoli all’idea di “due Stati per due popoli”, e contrari a qualunque iniziativa che la ostacoli, come questa risoluzione improduttiva. Poco cambia, sul terreno, perché questo voto non dice che la Palestina è uno Stato. La pace si può raggiungere solo con i negoziati diretti senza condizioni». [8] Maurizio Molinari: «Un passo indietro dei palestinesi all’Onu avrebbe consentito al presidente Barack Obama di essere lui a prendere l’iniziativa, forse già all’indomani delle elezioni israeliane del 22 gennaio». [9]
«Crediamo nella pace, non vogliamo delegittimare Israele ma legittimare la Palestina. Le Nazioni Unite oggi devono darci il certificato di nascita» ha detto giovedì Abu Mazen prima del voto. [3] Tramballi: «Nessun Governo ha mai indicato le frontiere del moderno Israele. Abu Mazen lo ha fatto, proponendo quella precedente alla guerra dei Sei giorni del 1967. Non come mantra ma come base di trattativa: agli arabi il 25% della vecchia Palestina mandataria inglese, agli ebrei il 75. È un’equa spartizione che riconosce anche gli errori storici compiuti dagli arabi». [4]
«Se l’attuale Governo israeliano di estrema destra ha una visione di Stato palestinese, questo sono le città della Cisgiordania isolate le une dalle altre» (Tramballi). [4] Venerdì è stata annunciata la costruzione di tremila nuovi alloggi tra Gerusalemme Est e l’insediamento di Maaleh Adumin (39 mila coloni che da quarant’anni vengono incoraggiati ad allargarsi fra le proteste della comunità internazionale), ulteriore frammentazione della Cisgiordania. La situazione non cambierà se a vincere le elezioni del 22 gennaio, come sembra dai sondaggi, sarà la coalizione del premier Netanyahu, sostenuta dai coloni più estremisti. [10]
In casa palestinese, il voto di New York ha rialzato il malandato prestigio di Abu Mazen. Molinari: «Eletto nel 2005 all’ombra onnipresente di Arafat, umiliato nel 2007 dal colpo di mano di Hamas a Gaza, con il mandato scaduto da oltre tre anni ed emarginato dalla recente crisi di Gaza, ora diventa il leader del nuovo Stato, incassa da Hamas il sostegno nella votazione al Palazzo di Vetro, è sostenuto da dozzine di capitali e si sente politicamente forte». [11] Mastrolilli: «Ora Abu Mazen può utilizzare il successo in almeno tre modi: riprendere i negoziati, scegliere la strada della sfida entrando nella Corte Penale Internazionale per denunciare Israele, ritirarsi a vita privata». [8]
I combattenti di Hamas considerano la moderazione di Abu Mazen come una forma di collaborazionismo. Valli: «L’iniziativa all’Onu è la sua battaglia incruenta. È l’offensiva politica dei palestinesi che rifiutano l’uso delle armi. Questo è un motivo per assecondarla. È vano condannare il terrorismo se poi non si tende la mano a chi lo rifiuta. Anche tra quelli di Hamas sono emerse in queste ore alcune voci in suo favore». [2] Il voto di giovedì non sancisce però, come afferma il presidente dell’Autorità palestinese, l’unità tra Cisgiordania e radicali di Gaza. Negri: «Hamas e i Fratelli Musulmani puntano sull’internazionale islamica più che sullo stato palestinese». [5]
Note: [1] Corriere della Sera 30/11; [2] Bernardo Valli, la Repubblica 29/11; [3] Alberto Flores d’Arcais, la Repubblica 30/11; [4] Ugo Tramballi, Il Sole 24 Ore 30/11; [5] Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 30/11; [6] Alberto d’Argenio, Vincenzo Nigro, la Repubblica 30/11; [7] Massimo Gaggi, Corriere della Sera 30/11; [8] Paolo Mastrolilli, La Stampa 30/11; [9] Maurizio Molinari, La Stampa 30/11; [10] Francesca Paci, La Stampa 1/12; Alberto Stabile, la Repubblica 1/12; Francesco Battistini, Corriere della Sera 1/12; [11] Maurizio Molinari, La Stampa 29/11.