Mariano Maugeri, Il Sole 24 Ore 30/11/2012, 30 novembre 2012
IL «RAGIUNATT» E I MAGNIFICI CINQUE
«In Germania gli italiani fanno la pizza, io faccio l’acciaio». Ogni volta che pronuncia questa frase, gli occhi di Emilio Riva, classe 1926, quarto anno dell’era fascista, si contraggono meccanicamente.
Il ragiunatt, costretto agli arresti domiciliari nella sua villa varesina, aspetta gelidamente che il destino gli fornisca l’occasione giusta per vuotare il sacco. Le cose non stanno andando come le aveva pianificate. Quello dei magistrati è il secondo sgarbo ricevuto dai tarantini. Del primo fu autore l’allora sindaco ed ex parlamentare Giancarlo Cito, oggi detenuto nelle patrie galere. Che mostrò subito ostilità e un malcelato disprezzo nei confronti dell’industriale milanese. Racconta Riva: «L’approccio non fu molto facile: dopo due settimane di anticamera, il sindaco mi disse di stare attento perché ero un ospite della città».
Un avvertimento, né più né meno. Da allora, parecchie cose sono andate storte. Persino il figlio prediletto, il primogenito Fabio, ragiunatt come lui e una passione smodata per le belle donne – tra le sue amanti attrici, cantanti e persino tele giornaliste – è fuggiasco in India (o Brasile) dopo l’ordine di arresto spiccato lunedì scorso dalla Procura di Taranto.
Causa decapitazione giudiziaria, la fabbrica, l’amata acciaieria del vecchio Emilio Riva & figli, per la prima volta dal ’95 è in mano a quattro manager pugliesi purosangue, il cerchio magico: Adolfo Buffo di Tricase (Lecce) due avvisi di garanzia in pochi mesi e successore di Luigi Capogrosso, storico direttore dello stabilimento, ai domiciliari da luglio e da lunedì in carcere; Salvatore De Felice, primo successore dopo gli arresti di Capogrosso, arrestato in luglio e poi rilasciato in agosto; Vincenzo Dimastromatteo, il barlettano quarantaduenne emergente, cui sono state affidate le aree strategiche degli altoforni e dell’agglomerato; Vito Vitale, tarantino di Pulsano, alla guida delle cokerie; Antonio Lupoli, nato a Palagianello (Taranto) responsabile dell’area a freddo. L’unico nordista sopravvissuto nel cerchio magico dei Riva è il lecchese Cesare Corti, soprannominato "l’ultimo dei mohicani", che curiosamente fa rima con padani, a capo del treno nastri e il treno lamiere.
I magnifici cinque s’interrogano da giorni sul decreto preannunciato dal governo e sulle reazioni dei magistrati tarantini, soprannominati "i nostri eroi". A complicare maledettamente le cose ci si sono messi i tre custodi giudiziari nominati dalla Procura, tre ingegneri dell’Arpa, l’Agenzia regionale per l’ambiente. Agli omologhi dell’Ilva è bastato qualche giorno per capire che le loro idee in materia di siderurgia fossero piuttosto vaghe. L’ultima topica in ordine di tempo è di un paio di settimane fa. L’editto recitava solennemente: non si possono prelevare dalle navi più di 15 mila tonnellate di materiale al giorno, allo stesso tempo l’autonomia per tipologia di minerale depositata nei parchi minerari non deve superare i 15 giorni. Una stramberia. Perché le navi contengono da 120mila a 300mila tonnellate di minerali e non è mai accaduto che si prelevasse un decimo del carico. Qual è la monumentale imbarcazione che attraversa un paio di oceani per scaricare 15 mila tonnellate di minerale? «Ingegne’, sono navi che vengono dal Brasile, non silos galleggianti che possiamo utilizzare come ci pare», ha ringhiato uno dei capi pugliesi ai custodi della Procura. A un certo punto, davanti al porto, si è creato un ingorgo di una dozzina di navi che non sapevano più se tornare alla base o attendere che qualcuno rinsavisse. Ovviamente, i costi stanno sfondando tutti i tetti di spesa. Una cosa che fa rizzare i pochi capelli rimasti in testa al vecchio Emilio. Il suo sermoncino si ripete uguale a se stesso ogni volta che riunisce in Viale Certosa, il quartiere generale milanese del gruppo, i 146 dirigenti che governano una galassia di 21 mila dipendenti: «Se tagliate un centesimo di costo per dipendente, l’azienda avrà risparmiato alla fine di ogni giorno 21 mila centesimi». Una politica sparagnina teorizzata da Emilio nell’audizione del 1998 davanti ai senatori della Repubblica: «Credo solo alle statistiche, ai numeri esatti; non sono un avvocato ma un ragioniere che conosce molto bene i numeri».
I Riva, però, trovano sempre il modo di organizzarsi. E al capitolo navi da carico e armatori contano un’azienda fondata da Claudio, "il cartesiano", il figlio colto e intelligente (è l’unico con la maturità classica) che decise di mettersi in proprio dopo un litigio furibondo col vecchio Emilio. Correva l’anno 2000. Oggetto del contendere: la gestione della solita Ilva di Taranto. La società marittima di Claudio non si discosta dal core business della famiglia: trasporto di materie prime e minerali per impianti siderurgici. Litigi familiari o non litigi, per i Riva c’è una data sacra. Il terzo sabato di novembre, cascasse il mondo, i 146 dirigenti di nove diverse nazionalità sono convocati a Milano per il pranzo di fine anno. Il piatto preferito dal vecchio Emilio: trippa con i fagioli o la milanesissima cassoeula.
La liturgia prevede che ogni dirigente sia chiamato dal figlio o dal padre, a seconda di chi li ha nominati. Solo i direttori degli stabilimenti ricevono il premio unicamente da Emilio, che li convoca nel suo ufficio al terzo piano. I quattro figli maschi, invece, chiamano a uno a uno i dirigenti dei quali si sono assunti la responsabilità e gli consegnano una busta con dentro la cifra del premio che sarà corrisposto con lo stipendio di gennaio. È una cerimonia tutta maschile. Che quest’anno, per la prima volta dopo vent’anni, è stata cancellata. Nessuna donna è ammessa, neppure la seconda moglie magrebina del patriarca Emilio. "In azienda non devono mettere piede" ha sentenziato il fondatore del gruppo, che ha negato alle due figlie una carriera nel gruppo. L’unica concessione al genere femminile è una panettone da 25 chilogrammi. Marca Tre Marie.