Giuseppe Videtti, il Venerdì 30/11/2012, 30 novembre 2012
LA CRISI DEL DISCO UN CROLLO CON DUE ECCEZIONI: ADELE E IL VECCHIO VINILE
Venticinque milioni di dischi. Cifre, d’altri tempi? No, di oggi. A ventun anni, con un solo album pubblicato da un’etichetta indipendente (titolo: 21), Adele ha fatto boom. E ha invertito la tendenza.
Ma allora la crisi del disco è reversibile? C’è modo di frenare il calo vertiginoso di utili a livello globale (meno 63 per cento in dieci anni: 27,7 miliardi di dollari nel 2001, 10,2 nel 2011)? Se il responsabile è il mercato online (che in Italia, dal 2004 a oggi, ha subito un incremento del 44 per cento diventando il 30 per cento del fatturato del mercato musicale), come ha fatto Adele a vincere con un cd e un risultato da far impallidire Elvis, Beatles e Madonna?
La risposta è nella qualità: undici canzoni, tutte bellissime. Non succedeva da anni, la videomusica e la rete ci avevano ridotto a ostaggi della canzonetta, del singolo (il vecchio 45 giri). Del resto, chi ha voglia di comprare un intero album per un paio di belle canzoni – soprattutto se quei due brani li puoi scaricare, magari anche gratis? Risultato, tanto per farci i conti in tasca, oggi, in Italia, sei in vetta alla classifica con mille dischi venduti (e/o scaricati) in una settimana. E dalla nebbia fitta, emerge solo il mercato della classica, notoriamente relegato alle retroguardie. Gli amanti di Beethoven e Gershwin non si arrendono al download e si creano piccoli casi: la Rhapsody in Blue di Bollani e Chailly ha venduto centomila copie, rimanendo per molte settimane nella classifica pop.
In questo quadro nero le etichette indipendenti – strutture più agili e dinamiche, organici ridotti e qualificati, strategie di marketing mirate – mostrano i muscoli davanti alle multinazionali che, dopo la fusione Emi/Universal, sono rimaste in tre (le altre sono Sony, e Warner).
«Noi lo avevamo intuito negli anni Novanta» dice Noel Gallagher, il leader degli High Flying Birds. «Già al tempo degli Oasis usavamo le major solo per la distribuzione. Tutto il resto era, com’è ora, gestito da noi».
La morte di Michael Jackson ha però risvegliato i boss dell’industria del disco e i tycoon della rete. Il pop – e lo psicodramma collettivo che può scatenare – ha imperiosamente riaffermato il suo potere. Splendore e miseria, proprio come ai tempi di Elvis. E in un mese undici milioni di dischi sono volati via. Di vecchi dischi, s’intende. Non una canzone scaricata da iTunes, non un singolo acquistato in uno dei pochi negozi rimasti, ma album interi, long-playing che hanno fatto storia, con dieci-dodici canzoni importanti, assemblate con una logica, un gusto, una personalità. Come Thriller, album-simbolo della storia del pop, il più venduto, prima e dopo la morte di Jackson. Con i punti vendita specializzati ormai in estinzione, i dischi del re del pop sono riapparsi negli spazi sempre più esigui dei mediastore, angoli quasi invisibili tra libri e articoli di cancelleria. Poi, le ristampe di Michael Jackson, come quelle dei Beatles, e i cd dei sopravvissuti delle hit parade (da noi Jovanotti, Morandi, Baglioni, Renato Zero, Vasco, Tiziano Ferro, Ramazzotti), le trovi in edicola o tristemente esposte negli uffici postali.
Il vecchio album, insomma, figlio dello storico microsolco, deriso dal digitale e sbeffeggiato dal download, resiste. Anche se il cd, ultimo rappresentante di una tradizione iniziata un secolo fa con un disco ben più voluminoso e pesante, barcolla. Torna prepotentemente il vinile, riscoperto da una pletora di aficionados (i Pearl Jam, Red Hot Chili Peppers e, persino, Celentano pubblicano in entrambi i formati), tanto che nell’ultimo anno le vendite del «vecchio disco nero» sono raddoppiate.
Chi ha sbandierato ai quattro venti la morte del disco ora riflette, ma se l’industria non ricomincia a investire sugli artisti – e di conseguenza sul prodotto – fenomeni come Michael Jackson o Adele e campioni di vendita come Thriller o 21 fra dieci anni saranno un ricordo. Come i vecchi album, che avevano un odore, come i libri. Inconfondibile, quando entravi nel mitico Tower Records di Manhattan, 4th & Broadway, nella New York cantata da Dylan e Simon & Garfunkel. Era il tempio del vinile, poi del cd. Da cinque anni non c’è più. Tre anni fa, il gigantesco Virgin Megastore di Times Square, che in posizione strategica aveva resistito agli attacchi del digitale (un utile di sei milioni di dollari nel 2008), ha chiuso i battenti. Al suo posto un retail di moda giovane, Forever 21. E pochi mesi dopo, anche il Virgin di Union Square ha messo in liquidazione le ultime scorte di cd.
«A New York non c’è più un negozio dove comprare dischi» protesta David Byrne, ex leader dei Talking Heads. «Se non avessi la possibilità di acquistare cd su Amazon non saprei dove andare. Meglio che la musica finisca definitivamente online, insieme alle immagini, ai testi, a brevi filmati, a tutte quelle cose che il cd non potrebbe veicolare. È l’unica possibilità di restituire dignità agli artisti».
Brian Eno è della stessa idea: «Il downloading non distruggerà la musica» dice il produttore degli U2, che insieme a Byrne ha prodotto un album da ascoltare (ed eventualmente acquistare) in rete. «Realizzare un disco non costa moltissimo, come ci hanno fatto credere» incalza Byrne, «lo dimostra il fatto che Brian e io siamo riusciti ad ammortizzare i costi in due o tre settimane vendendo il cd online».
I Radiohead, in rotta di collisione con l’industria, sono stati i primi a vendere dischi sul loro sito, realizzando un fatturato di tutto rispetto. «Abbiamo ragionato con la tecnica del low cosi» dice Thom Yorke, leader della band, «risparmiando sui complicati processi di marketing delle case discografiche e vendendo l’album a offerta libera siamo riusciti a guadagnare anche di più». Anche Trent Reznor dei Nine Inch Nails è sceso a patto con i downloaders. «La gente ci sta rubando la musica, che ci piaccia o no. È li, è gratis. L’epoca in cui si facevano soldi vendendo dischi è finita» dice, «l’industria non ha saputo confrontarsi con i nuovi media, quindi l’artista deve essere così abile da produrre qualcosa di bello, unico, irrinunciabile. È l’unico modo per monetizzare il nostro talento».
Al problema s’interessò anche Steve Jobs: il vecchio album è da troppo tempo in stato di anossia per essere rianimato, disse, «bisogna escogitare un prodotto da vendere in rete che abbia le stesse caratteristiche dell’Lp, ne arricchisca i contenuti e garantisca utili agli autori». App come quelle di Peter Gabriel, Björk o Moby – che ha coinvolto il regista David Lynch nell’animazione di un brano – potrebbero presto diventare parte di un contenuto digitale non duplicabile, con musica e immagini acquistate in rete.
«Gli scarsi introiti non permettono più agli artisti di abbandonarsi alla pigrizia. Una volta si andava in tour ogni quattro-cinque anni, adesso i concerti sono frequenti e irrinunciabili» ci ha detto Bono degli U2. «Chi, come me, è cresciuta con i Police, Sinéad O’Connor, Van Morrison, Eurythmics e Kate Bush non potrà rinunciare al vecchio disco» protesta Dido, cantante esplosa nell’era del digitale.
«Ora quell’affezione la trovi in internet, solo lì c’è quella libertà che si respirava nelle prime radio private, quando il long-playing era ancora sacro» ribatte Jovanotti, lasciando spazio a un po’ di speranza: in questo libero territorio, comiugando tradizione e tecnologia, a qualcuno potrebbe tornare la voglia di praticare «l’arte» della musica.