Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 28 Mercoledì calendario

Gli scrittori (cattivi) non si ritirano mai - «Non parole, un gesto, non scri­verò più», così termina Il me­stiere di vivere di Cesare Pavese, con grande forza espressiva per­ché per uno scritto­re finché c’è vi­ta non c’è speranza ma solo scrit­tura oppure niente

Gli scrittori (cattivi) non si ritirano mai - «Non parole, un gesto, non scri­verò più», così termina Il me­stiere di vivere di Cesare Pavese, con grande forza espressiva per­ché per uno scritto­re finché c’è vi­ta non c’è speranza ma solo scrit­tura oppure niente. Infatti l’an­nuncio Pavese l’ha lasciato post mortem in un’opera, mica ha convocato una conferenza stam­pa per dire: «Sapete che adesso smetto di scrivere con un ge­sto? ». Al contrario la categoria dell’annuncio come coup de théâtre finale è una specie di sui­cidio inscenato per assistere al proprio funerale, tipo Philip Roth che annuncia di smettere di scrivere. Nessuno si è strappa­to i capelli, Roth ha già dato e ra­schiato il fondo e abbiamo perso i conti degli Zuckerman scatena­ti di qua e di là. Più preoccupante la motivazione: finalmente co­mincerà a vivere, e chissà cosa pensa di fare a settantanove an­ni. In ogni caso non c’è nulla di ve­ramente drammatico, l’annun­cio di uno scrittore assomiglia più al marito che grida «Non te lo do più» per ripicca e perché sotto sotto non gli tira più. Il dramma, casomai, è un altro: oggi a nessu­no frega veramente niente di co­sa fa uno scrittore. Come Stephen King, pochi an­ni fa: tutto un de profundis per­ché non aveva più idee, aveva esaurito la vena, il sangue, gli in­cubi, i fantasmi, e dopo neppure sei mesi ha ricominciato più di prima. Nel frattempo pare stia di­ventando una moda: ha dichiara­to timidamente di voler smette­re la canadese Alice Munro (ma forse smettono di scrivere per smettere di fumare?), più deciso l’annuncio del Premio Nobel un­gherese Imre Kertész: «Non vo­glio più scrivere », con il rischio di farsi rispondere dai non unghe­resi e dai non Olocausto ad­dicted: «Ah, perché, scrivevi?». Per carità, nella storia sono tantis­simi che avrebbero fatto meglio a smettere davvero: Hemingway si poteva sparare prima de Il vec­chio e il mare , Oscar Wilde dove­va tagliarsi le falangi prima di di­ventare un prete nel De profun­dis , Herman Hesse non doveva mai iniziare. E da noi uno per tut­ti: Alessandro Manzoni. Una vita dietro a i promessi sposi, da sciac­quare e­risciacquare in Arno ma­niacalmente e senza mai affogar­li, e al danno la beffa postuma: al­la fine era meglio Il Fermo e Lu­cia . Senza contare i tanti contabi­li odierni da Trevi a Carofiglio, da Gramellini a Faletti e falettini, cioè quelli che a scrivere non do­vevano proprio iniziare. Alberto Arbasino è sicuramente il più ele­gante, il più nonchalance: ha smesso di scrivere cominciando a riscrivere. Con il risultato di far impazzire i filologi e Raffaele Ma­nica per il Meridiano Mondado­ri: dovendo decidere quale delle riscritture di Fratelli d’Italia inse­rire, mettendo infine la prima e la seconda e tralasciando l’ulti­ma, perché lunghissima, e per­ché Adelphi. Un caso a parte è Antonio Mo­resco: dopo Canti del caos an­nunciò di voler sparire in un luo­go segreto per dedicarsi a un li­bro postumo, e invece subito do­po uscirono Gli incendiati , venu­ti così, di getto, e in uscita per Mondadori un altro romanzo breve, La lucina . Perché quando ti viene ti viene. In quanto, fatemi capire: se tra un anno Roth vuole ricominciare non lo fa perché or­mai l’ha dichiarato? Come Aldo Busi, sebbene sia una categoria a parte: apparentemente è simile al succitato caso di Stephen King, con la differenza che la lie­ta novella si trasforma in una pia­ga sociale senza fine. Dovrebbe essere il ritorno di un leone e inve­ce assomiglia a un uccello che sbatte contro il vetro di una casa di Montichiari. Oltretutto e a pro­posito da a­nni non fa che ripeter­mi che devo smettere di scrivere, paura eh? Ma fatti i cazzi tuoi. Co­munque sia Busi è un genio, me­rita rispetto. Non certo di finire da Luca Telese che lo presenta con la formula busiana del più grande scrittore italiano eccete­ra ma insieme a Aldo Cazzullo, «un altro grande scrittore», forse perché si chiamano Aldo en­trambi. E allora per farla breve Busi, dopo aver smesso di scrive­re per dieci anni un giorno rico­mincia a scrivere, e fin qui siamo tutti felici. Ma ne viene fuori una telenovela di una pallosità mor­tale su Dagospia: il romanzo è au­todefinito un capolavoro, poi ca­polavoro fallito, poi un capolavo­ro riuscito, poi censurato senza che nessuno lo censuri, mentre l’Italia se lo merita e non se lo me­rita a giorni e ripensamenti alter­ni. Alla fine è il solito “capolavoro assoluto”e io non entro nel meri­to ma secondo me lo ha scritto il fido assistente di Busi, Marco Ca­valli. Oppure potrebbe perfino essere, come mi suggeriscono al­tri maligni ( sempre io, per la veri­tà) che lo scudiero abbia scritto tutti i capolavori di Busi, da Semi­nario sulla gioventù a Casanova di se stessi . Insomma, sarebbe uno scoop scoprire che L’Espe­cialista de Barcelona è l’unico ro­manzo di Busi, e sarebbe davve­ro un capolavoro, quasi un Caval­li. Il quale Cavalli, viceversa, altra notizia, avrebbe smesso di scrive­re senza annunciarlo a nessuno.