Maria Luisa Frisa, l’Espresso 30/11/2012, 30 novembre 2012
IN PRINCIPIO FU PUCCI
La prestigiosa rivista americana “Harper’s Bazaar” racconta e documenta entusiasta come a Zermatt il marchese Emilio Pucci abbia creato in un giorno un corredo da sci per una amica derubata delle valigie. Ancora 1947: Salvatore Ferragamo riceve a Dallas il premio Neiman Marcus, l’Oscar della moda. Ed è proprio alla fne degli anni Quaranta del secolo scorso, che a Firenze Giovan Battista Giorgini mette e a fuoco l’idea di un “italian look” da inventare, defnire e proporre all’America come rigeneratore dell’immagine dell’artigianato italiano, ma soprattutto di una moda italiana capace di attirare i buyer americani e la stampa internazionale. Il caso Emilio Pucci sta già esplodendo negli Stati Uniti, le meravigliose scarpe di Salvatore Ferragamo calzano già i piedi delle dive più famose di Hollywood. E Gucci è già affermato a livello internazionale come marchio di pelletteria artigianale produttrice di borse (la borsa con il manico di bambù è del 1947), valige e articoli sportivi (soprattutto l’equitazione) di grande qualità, ma anche capace di fantasiose innovazioni: l’idea di usare anche materiali come canapa, lino e bambù meno costosi durante il periodo dell’autarchia, sarà vincente nella defnizione di uno stile inconfondibile. Succede allora che anche grazie anche a questi inventori e precursori del made in Italy, a Firenze nel 1951 possa prendere defnizione e ribalta quel fresco, originale stile italiano che da quel momento diventerà nel mondo sinonimo di qualità, innovazione e portabilità.
Diversissimi per origini e cultura: Emilio Pucci marchese, con domicilio a Firenze in Palazzo Pucci, in via dei Pucci; Salvatore Ferragamo arrivato sulle rive dell’Arno nel 1927 di ritorno dall’America dove era emigrato dall’Irpinia nel 1914; migrante anche Guccio Gucci, che, nato a Firenze nel 1881, diventa “liftboy” al Savoy Hotel di Londra. Tre nomi che hanno in comune la qualità del made in Italy, che non si fonda solamente sulla maestria esecutiva: la fabbrica toscana- italiana non è solo fabbrica di cose, ma è anche fabbrica di idee. Emilio Pucci offre alle donne la possibilità di muoversi liberamente: il baule del viaggiatore lascia il posto al bagaglio leggero e al beauty case del jet-set. Abiti leggeri (circa 200 grammi) in jersey di seta, con stampati di ispirazione sempre diversa, dai colori meravigliosi, che stanno bene e non sgualciscono mai. Ma la prima dichiarazione dell’inconfondibile stile, semplice e chic, che aveva conquistato le donne americane erano i pantaloni che assecondano la fgura femminile esaltandola e che, abbinati alla svelta camicetta da portare con le punte del colletto rialzate, “sono perfetti per colazioni e cene informali, in riva al mare, in città, in campagna, a South Hampton, a Boston, a Saratoga”. La rivista americana “Town and Country” nel gennaio del 1956 ci informa che la mondanissima e molto elegante Mrs. Michael G. Phipps, riceve i suoi ospiti in «Pucci pants, Pucci shirts and Capri sandals».
Per Salvatore Ferragamo la scommessa è una comoda scarpa di sogno. Quando inizia a studiare anatomia in America capisce che la soluzione del problema sta nella distribuzione del peso del corpo sull’articolazione del piede. «Ho trovato che il peso del corpo in posizione eretta cade verticalmente sull’arco del piede», scrive: «Nascono allora le mie forme rivoluzionarie, che dando appoggio all’arco, permettono al piede di muoversi come un pendolo all’inverso». Le scarpe di Ferragamo sono incantevoli piedastalli, fatti dei materiali più diversi, compreso il flo di nylon, su cui ogni donna si può sentire una comoda regina. Nel suo laboratorio le forme del piede di attrici famose, di aristocratiche, di icone come Evita Peron si mescolano con quelle delle donne normali che hanno capito che cosa signifchi calzare una scarpa fatta da “Il calzolaio dei sogni”.
Firenze può minacciare Parigi? Questa è la provocatoria domanda posta da “L’Europeo” del 9 settembre del 1951 dopo le prime sfilate fiorentine di moda italiana. Nell’articolo sono presenti le fotografie di alcuni dei modelli di Marucelli, Pucci, Vanna, Fabiani, Sorelle Fontana che hanno sfilato nella magnificenza della Sala Bianca di Palazzo Pitti.
La moda italiana ha bisogno di uno sfondo e Firenze con le sue bellezze è il set ideale. Non sono solo i paesaggi, i palazzi meravigliosi, le opere d’arte: a contribuire a dare realtà contemporanea agli abiti sono anche le persone che abitano la città. L’eleganza e l’allure delle nobildonne che vestono italiano per dare consistenza al sogno di Giorgini; o le ragazze dei quartieri popolari come San Frediano, schizzate dalla penna di Pratolini, che nella necessaria semplicità del loro abbigliamento quotidiano raccontano di un naturale buon gusto, che tutt’ora è uno dei caratteri distintivi dello stile italiano.
«Uno dei prodotti italiani più richiesti è lo “snob appeal” », leggiamo su “Look” del gennaio 1961: «A contribuire a questa nuova popolarità per le cose italiane sono la moda elegante e l’arredamento ben fatto che dichiarano status in maniera silenziosa, ma effettiva. I migliori grandi magazzini americani sono stati rapidi nel capitalizzare sul fatto che lo snobismo vende. In un solo anno loro e molti altri a New York e altrove nel paese hanno soddisfatto i loro consumatori alla ricerca di prestigio made in Italy, importando prodotti per più di 384 milioni di dollari».
Sempre impegnati a fare, spesso ci dimentichiamo di raccontare quelle storie che hanno contribuito a fare dell’Italia il paese dove si continuano a produrre tutti gli oggetti più belli della moda contemporanea: da quelli dei grandi brand a quelli degli indipendenti. Un’offcina creativa che riesce a tenere insieme, con esiti straordinari, idee, manifatture e organizzazione della produzione.
Allora, da queste fashion tales non emerge solo un affresco di un’Italia della moda in cui la Toscana e Firenze rappresentano un’eccellenza tuttora unica, che imbocca nuove strade per ripensarsi e rilanciarsi, consapevole di un panorama dove i consumi sono diversifcati e dove la modernità detta nuovi ritmi alla vita quotidiana (e quindi al vestire quotidiano). Ma emerge anche l’idea democratica di tradurre e rendere accessibile per tutti la qualità. «Da noi la moda non è sorta dalle avanguardie, ma da un antico e diffuso tessuto produttivo e artigianale. Ha dovuto affrontare un mondo moderno, disordinato e ostile, battersi per sopravvivere. La moda italiana non è nata come spettacolo, provocazione, puro divertimento. Ma come industria per rendersi utile, per vestire. Non voleva mettere in crisi le identità, voleva ridarle». Uso le parole di Francesco Alberoni per riaffermare e specifcare l’identità italiana che ha preso forma e valore a Firenze: le origini simultaneamente visionarie e rigorosamente imprenditoriali della nuova moda italiana.
direttore del Corso di laurea in design della moda, Università Iuav di Venezia