Daniele Bellocchio, l’Espresso 30/11/2012, 30 novembre 2012
PER UN PUGNO DI DIAMANTI
Gorma è nostra! Se il governo di Kinshasa vorrà accettare le nostre richieste saremo disposti a scendere a patti, altrimenti proseguiremo fno a Bukavu. Oggi abbiamo conquistato il Nord Kivu. Domani tutto il Congo... Parla il leader dei ribelli dell’M23, il generale Sultani Makenga, dopo la presa della città. Gli insorti tutsi si sono impadroniti del capoluogo. Quella che sembrava solo una piccola cellula impazzita dell’esercito regolare ha già, invece, sotto il suo controllo, la parte più ricca della Repubblica Democratica del Congo. E i proclami del generale ribelle suonano come una minaccia, rivolta contro tutta la nazione. Ma dietro quella che sembra una rivendicazione politica si nascondono le vere ragioni del conflitto che insanguina il Nord Kivu. Ragioni che si chiamano diamanti, oro e coltan, il prezioso minerale che è componente fondamentale nei nostri cellulari. Il Paese è tra i primatisti mondiali per ricchezze del sottosuolo, ma risulta all’ultimo posto per prodotto interno lordo. E la guerra è la corsa verso il nuovo Eldorado nell’area che vanta oltre l’80 per cento delle riserve di coltan a livello globale, ricchi floni di cassiterite (altro ricercatissimo minerale) e considerevoli giacimenti auriferi.
Se sul campo la contrapposizione è ancora, come succede da alcuni decenni, tutsi contro hutu, dietro le quinte, registi del confitto, ci sono le due super potenze economiche: Pechino contro Washington, tanto che gli analisti dipingono la carnefcina in Nord Kivu come un confitto per procura. Da una parte la Cina, che ha stretto la mano del presidente Laurent Kabila già nel 2008, quando vennero frmati gli accordi sino-congolesi: investimenti di oltre 6 miliardi di dollari in infrastrutture, strade e ospedali da realizzare nel Paese africano, in cambio di tonnellate di materie prime. Dall’altra gli Usa che, minacciati dal primato economico che la Cina vanta oggi in Africa, dagli stretti rapporti tra Pechino e Kinshasa e dalle ambizioni orientali sul forziere congolese, hanno deciso di appoggiare il Ruanda, sostenitore e fnanziatore dei ribelli M23.
L’acronimo in sé evoca le origini del movimento: 23 marzo 2009, giorno degli accordi di pace tra il gruppo di insorti del Cndp del generale Laurent Nkunda e l’esercito governativo. Un mancato rispetto dei patti, stando a quanto sostengono i rivoluzionari, è alla base della rivolta. Nei loro proclami gli insorti accusano il governo di discriminazione nei confronti dei soldati tutsi e di aver cessato il fuoco contro le milizie del Fdlr (gruppo armato hutu, presente nel Nord Kivu). A ciò aggiungono motivazioni di carattere politico e amministrativo: lotta alla corruzione, al malgoverno di Kabila, alla burocrazia dilagante e alla piaga del nepotismo.
«Gli M23 verranno sconftti nelle loro stesse roccaforti. Il Congo è dei congolesi e lo difenderemo sino alla morte», gridava il colonnello delle Fardc, le truppe governative, Olivier Amouli. Ma il retorico sciovinismo del portavoce è stato presto smentito: sono bastati solo sei mesi agli uomini del generale ribelle Sultani Makenga per sottomettere il territorio di Rutshuru, arrivare a Goma e creare un governo parallelo. La resistenza opposta da parte dei lealisti è stata inesistente: una masnada indisciplinata di soldati ha abbandonato la popolazione. Una conquista, quella del capoluogo, fatta con celerità per evitare il massacro dei tutsi che era iniziato prima dell’arrivo dei ribelli. Così la leadership rivoluzionaria ha giustifcato la tempestiva occupazione. Un angosciante silenzio interrotto solo dalle esplosioni dei colpi di artiglieria, dalle raffche di Kalashnikov e da quelle delle mitragliatrici ha anticipato l’arrivo delle truppe del generale Sultani Makenga. A piedi e a bordo di jeep gli M23 sono entrati nel capoluogo. La loro marcia trionfale era cominciata a Rutshuru ed è stato un crescendo che i lealisti non sono riusciti ad arginare. Il segretario esecutivo del governo degli M23 si chiama François Rucogoza. Sul tavolo del suo uffcio nella roccaforte di Bunagana ci sono le biografe di Mandela, Che Guevara, Gandhi e Obama. Dice: «Siamo nati per difendere l’etnia tutsi e per liberare il popolo congolese da corruzione e mal governo. Non abbiamo nulla a che fare con il Ruanda, nonostante il governo di Kinshasa e l’Onu ci accusino di questo. Noi vogliamo liberare il nostro Paese dai ladri che lo governano. Banditi nella politica, nell’esercito, nella sanità. Così è il Congo oggi e siamo qui per cambiare questo stato di cose». Parole in totale sintonia con quelle del leader militare e vera guida rivoluzionaria, il generale Sultani Makenga: «Siamo i liberatori. Quando prendiamo le città la gente festeggia nelle strade. Ogni giorno tra le nostre fla arrivano soldati disertori dell’esercito regolare ».
La caserma di Rumangabo è la roccaforte da cui il generale, assiso come un Serse africano su una sedia da campeggio e circondato dalla sua guardia personale, pronuncia le parole altisonanti. E mentre osserva l’addestramento delle sue truppe, ascetico in una posa da bramino della guerriglia, non si sbilancia, per non dare vantaggi al nemico, sul numero delle forze a sua disposizione: «Abbiamo artiglieria pesante e uomini ben addestrati. Nelle Fardc non ci sono personalità di comando e le truppe non hanno né motivazione, né preparazione adeguata. Se loro vogliono la guerra, questa andrà avanti, sino alla nostra totale vittoria».
I suoi proclami sono in netta contraddizione con la realtà dei territori ora sotto il controllo dei rivoluzionari. Racconta Jean Baptiste Zabomimba, studente di 17 anni: «Hanno obbligato ogni famiglia a versare una tassa mensile e ogni ragazzo con più di 17 anni deve pagare agli M23 oltre 200 franchi ogni mese». Rincara Gabriele Shirambere, 40 anni, contadino e padre di famiglia: «La notte noi cittadini facciamo delle ronde perché siamo terrorizzati. I ribelli rubano, violentano e ci costringono al lavoro forzato nei campi. Contro noi hutu, poi, si sono particolarmente accaniti, discriminandoci e perseguitandoci». Sopraggiunge una pattuglia di soldati. Tutti i civili si dileguano: per paura di aver detto una frase di troppo.
Quartieri deserti, negozi e scuole chiusi. I beni di prima necessità si trovano al mercato nero, i profughi hanno abbandonato le proprie capanne e un tacito coprifuoco immobilizza la vita dei civili: Goma è una città fantasma e piena di fantasmi. Spiega Gervaise Muhigi, studente di 20 anni: «Siamo terrorizzati. Nessuno esce per strada. Nessuno. Vediamo solo pattuglie di M23 che controllano ogni via».
Solo un corteo funebre attraversa l’unica strada del capoluogo, quella che dalla frontiera con il Ruanda arriva sino alla periferia. Su un autocarro, disteso, c’è il corpo esanime di Stella Sekanabo, 40 anni, attivista in un’associazione flantropica locale, uccisa da un commando ribelle. Alfonso Saghendo, presidente dell’organizzazione in cui lavorava la donna, usa parole di fuoco: «Il Ruanda sta aiutando i tutsi a impadronirsi del potere. Vogliono costringerci così ad accettare il loro governo». Durante il rito funebre, i parenti e gli amici della vittima alternano canti religiosi e imprecazioni di odio contro i tutsi. Il peggio deve ancora venire. La marcia prosegue verso il cimitero. Una striscia di terra, il camposanto, metà in territorio ruandese e metà in territorio congolese. Ci sono solo i morti, oggi, ad abbracciare e unire i due Paesi e le loro etnie.