Jeffrey Kluger, l’Espresso 30/11/2012, 30 novembre 2012
INDOVINA CHI ARRIVA DALLO SPAZIO
La palla di fuoco che nel luglio 2011 cadeva a tutta velocità sopra la cittadina di Tata, nel Marocco sud-occidentale, era diversa da qualsiasi cosa i residenti del posto avessero mai visto. A un boato ne era seguito subito un altro, nell’istante in cui un lampo giallo squarciava il cielo. Il giallo ha virato al verde illuminando il paesaggio, la palla di fuoco si è spaccata in due e una gragnuola di detriti roventi è piovuta a terra. E con ciò si è conclusa l’ultima invasione da Marte del nostro pianeta. Gli scienziati si sono precipitati su quel bolide soprannominato meteorite Tissint dal tipo di roccia di cui è fatto: volevano analizzarne la composizione - il che ha permesso di dimostrare che arrivava proprio da Marte - e più di ogni altra cosa desideravano sapere se avesse a bordo qualche passeggero.
La vita, stando a quel che possiamo documentare, esiste soltanto sulla Terra. C’è il nostro umile pianeta che orbita intorno alla nostra umile stella, e al di là c’è tutta l’inimmaginabile immensità dell’universo. Eppure, in questa inimmaginabile immensità noi siamo l’unico piccolo stagno nel quale ogni cosa prende vita. Questo, quanto meno, si riteneva essere il limite della nostra scienza, limite che di fatto è in rapida evoluzione.
Come ormai sanno gli scienziati, l’universo pullula di materia organica. Ovunque, nello spazio interstellare, vanno alla deriva molecole d’acqua. Idrogeno, carbonio, metano, amminoacidi, vorticano attraverso i sistemi stellari e ricoprono pianeti e lune. Nel 2009 la missione Stardust della Nasa trovò nella cometa Wild 2 l’amminoacido glicina. Materiale che, nel 2003 i radiotelescopi avevano individuato in alcune aree della Via Lattea nelle quali si formano le stelle. E si è visto che i meteoriti caduti sul nostro pianeta contengono amminoacidi, basi azotate che contribuiscono alla formazione del Dna e dell’Rna, e addirittura zuccheri.
Tutto ciò fa sorgere spontanea una domanda sostanziale: se gli elementi di base della vita organica possono letteralmente piovere ovunque, perché non potrebbe succedere altrettanto alla vita stessa, quanto meno sotto forma di batteri? Di questa improbabile teoria denominata panspermia gli scienziati discutono almeno dal XIX secolo. A quei tempi, però, non c’erano grandi conoscenze sugli ingredienti di base della vita, né si aveva idea di come trovarli nel caso in cui si fosse mai riusciti a individuarli. Oggi le cose sono radicalmente cambiate. Una molteplicità di nuovi studi condotti negli ultimi anni ha fatto luce. E la vecchia immagine della vita sulla Terra, chiusa in una sorta di campana che la isola perfettamente dal resto dell’universo, non ha più motivo di essere. Il nostro pianeta, come qualsiasi altro, potrebbe al contrario essere simile a un grande prato, ricettivo e accogliente per tutte le spore o le sementi che vi dovessero arrivare trasportate dal vento.
«Penso che i meteoriti abbiano sicuramente un ruolo molto preciso nel portare sui pianeti se non altro gli elementi di base della vita prebiotica», dice Chris Herd, esperto di meteoriti che lavora presso l’Università di Alberta e ha studiato i frammenti del Tissint: «Indubbiamente, affinché un microrganismo riesca effettivamente a migrare da un pianeta all’altro devono sussistere parecchie circostanze fortunate, ma in alcuni casi riescono a sopravvivere a stento al lungo viaggio». Se avessero concluso il loro viaggio arrivando sulla Terra degli albori, non soltanto avremmo potuto incontrare gli alieni: gli alieni potremmo essere noi.
Il flop su Marte
La ricerca della vita nei detriti arrivati dallo spazio non è stata esente da insuccessi. Il 6 agosto 1996, intorno a mezzogiorno, la Nasa colse di sorpresa il mondo intero annunciando in una conferenza stampa che un meteorite proveniente da Marte, noto con l’asettica sigla Alh84001, conteneva tracce evidenti di quelli che sembravano batteri fossili. "C’è vita su Marte!" titolarono i giornali - "Time" incluso: quella era esattamente la conclusione alla quale erano giunti a quel punto i ricercatori. «Oggi è un giorno straordinario», disse l’allora amministratore della Nasa Daniel Goldin, che poi aggiunse: «La notizia mi toglie il fiato». Il presidente Clinton, impegnato nella sua campagna per la rielezione, si prese un po’ di tempo prima di intervenire con un autorevole commento, e in una dichiarazione della Casa Bianca disse: «Se questa scoperta sarà confermata, di sicuro sarà una delle più straordinarie rivelazioni sul nostro universo che la scienza abbia fatto».
Straordinaria, certo, ma l’attesa conferma non arrivò mai. Ulteriori studi condotti sul meteorite 84001 non riuscirono a escludere che si fossero verificati dei processi inorganici e questi spiegassero le tracce organiche apparentemente presenti, e mentre quel frammento continua ancora oggi ad alimentare il dibattito, nessuno mette in discussione il fatto che le prove non furono così risolutive come sembravano dover essere. Da allora, la ricerca è proseguita a ritmo sostenuto. L’anno scorso, Herd ha pubblicato con altri autori uno studio sulla rivista "Science" nel quale dimostra non soltanto in che modo la materia organica potrebbe raggiungere la Terra, ma anche come potrebbe sopravvivere a un lungo viaggio nello spazio.
Incubatrice Tagish
Lo studio si sofferma in particolare su quello che oggi è noto come meteorite Tagish, dal nome del lago ghiacciato nella British Columbia sul quale precipitò sbriciolandosi il 18 gennaio 2000. A pochi giorni dall’impatto con la Terra, gli studiosi raccolsero i frammenti (evitando di entrare in contatto diretto con essi per escludere qualsiasi contaminazione biologica), e li conservarono in un deposito a bassa temperatura. Quando Herd e i suoi colleghi entrarono in loro possesso scoprirono che disseminate in tutto il frammento non c’erano soltanto sostanze organiche già individuate in precedenza, ma addirittura sostanze organiche in vari stadi di sviluppo: molecole più semplici in procinto di trasformarsi in molecole complesse, e molecole complesse in via di ulteriore evoluzione. Fu un po’ come trovare in uno stesso piccolo nido bruchi, bozzoli e farfalle. A quanto pareva, quel frammento di meteorite avevo svolto le funzioni di una sorta di incubatore in caduta libera: presentava nel nucleo tracce di acqua intrappolata che grazie al calore generato da materiali radioattivi aveva mantenuto il tutto caldo, vivo, palpitante. «Questi asteroidi si formano nello spazio: basta aggiungerci qualche molecola organica e un po’ di ghiaccio, aggiungere calore e iniziano subito a sobbollire», dice Herd. Questa lenta "cottura" è andata avanti per milioni di anni, fino a quando il calore e l’acqua non si sono esauriti e il processo si è arrestato.
Ciò non significa necessariamente che detriti di questo tipo, caduti sulla Terra miliardi di anni fa, abbiano dato origine a tutte le forme di vita terrestre, e nemmeno che abbiano partecipato ai processi biologici già in corso. Anche se, le sostanze organiche trovate all’interno di Tagish hanno un aspetto stranamente familiare. Gli amminoacidi sono di due specie: levogiri e destrogiri, a seconda della direzione nella quale punta la loro struttura asimmetrica. Ogni forma di vita sulla Terra utilizza la varietà levogira e anche gli amminoacidi individuati nel frammento di Tagish sono levogiri.
Clandestini cosmici
È abbastanza facile immaginare in che modo un meteorite aumenti di volume nello spazio aggregando vari materiali e trascorra la sua intera esistenza a viaggiare per finire nel campo gravitazionale di un pianeta non appena gli capita di passargli troppo vicino. Decisamente più difficile è immaginare che cosa serva ai materiali biologicamente contaminati per passare dalla superficie di un pianeta a quella di un altro. In primo luogo, deve esserci qualcosa che scaglia la materia nello spazio. Di norma questo qualcosa è l’impatto di un meteorite, che scaraventa detriti nello spazio, dove vanno lentamente alla deriva da un mondo all’altro. La Terra e Marte si sono scambiati sostanze in questo modo per miliardi di anni, anche se in maggior misura nei primi anni della nascita del sistema solare, quando il bombardamento cosmico era maggiore.
Di sole in sole
Qualsiasi forma organica stia svolazzando lassù, non dovrebbe limitarsi a viaggiare da un pianeta all’altro: in realtà potrebbe anche saltare da un sistema solare all’altro. Questa teoria, nota con il termine di lito-panspermia, è stata considerata a lungo impossibile. Non solo i tempi di percorrenza tra due sistemi solari potrebbero essere lunghi in modo proibitivo anche per i batteri più resistenti (nell’ordine di 1,5 miliardi di anni), ma oltretutto la velocità con la quale dovrebbe spostarsi un detrito cosmico per riuscire a sottrarsi alla gravità del suo sistema solare originario è troppo elevata perché esso sia attirato da un altro. Nel settembre scorso, tuttavia, un team composto da ricercatori della Princeton University, dell’università dell’Arizona e del Centro de Astrobiología in Spagna ha ipotizzato una semplice soluzione, che aggira tutti questi problemi.
La maggior parte dei modelli di lito-panspermia davano per scontato che l’unico modo col quale un frammento di roccia può allontanarsi da un sistema solare consiste nel passare insolitamente vicino a un grande corpo celeste come Giove, così da essere lanciato dalla sua forza gravitazionale a una velocità di circa 29 mila chilometri orari. Gli scienziati impegnati nelle ultime ricerche hanno fatto ricorso a un computer per tracciare la simulazione di una deriva lenta, un movimento simile a quella di una chiatta, grazie al quale un detrito poco alla volta può essere trascinato fuori da un sistema solare finché arriva così lontano dal suo sole originario che la minima oscillazione nella sua traiettoria potrebbe farlo finire nello spazio interstellare.
«A quel punto», spiega l’astrofisico Edward Belbruno, uno dei coautori di Princeton della ricerca, «è soltanto il caso a determinare se riuscirà a uscirne o no». Le immense distanze da coprire fino ai sistemi solari più vicini non contano. E, conclude Belbruno: «Migliaia di miliardi di detriti possono allontanarsi in questo modo da un sistema solare. Nel corso di 300 milioni di anni, la Terra potrebbe essere stata colpita da tre miliardi di essi».
Per il momento è impossibile sapere con certezza se anche uno solo di quei tre miliardi di detriti cosmici ospitasse al proprio interno del materiale organico, specialmente così tanto tempo addietro nella storia del Gruppo Locale. Ma se c’è una cosa che i nuovi studi hanno chiarito è che è altrettanto impossibile continuare a considerare la Terra e gli organismi che la abitano come qualcosa di separato dal resto dell’universo. I componenti elementari della vita organica sono ovunque. Ed è sempre più verosimile che possa esserlo anche la vita.
Traduzione di Anna Bissanti