Gigi Riva, l’Espresso 30/11/2012, 30 novembre 2012
COME È FRAGILE ISRAELE
Chiunque prevalga nelle elezioni del 22 gennaio avrà l’ingrato compito di aprire la carta geografica per ricordare a se stesso e a tutti i suoi concittadini che anche adesso, a 65 anni esatti dal piano di partizione dell’Onu che fu premessa per la nascita dello Stato (29 novembre 1947), non c’è un metro quadrato del Paese che possa dirsi sicuro. Nonostante otto guerre vinte, due Intifade e una soverchiante supremazia bellica nell’area, Israele è un gigante militare fragile e i suoi piedi d’argilla affondano nella riottosità dei vicini a riconoscergli la legittimità di esistere. Gli arabi che lo circondano hanno sfruttato il periodo recente di tregua relativa per arricchire gli arsenali fino a chiudere in una morsa la patria degli ebrei e a rendere turbolenti praticamente tutti i confini.
Gaza è l’avamposto più bollente. La recente "guerra degli otto giorni" (14-21 novembre) è stata solo l’assaggio di quanto potrà succedere in futuro. Hamas, movimento inserito tra le formazioni terroristiche anche dall’Unione europea, controlla la Striscia e ha nelle brigate Ezzedin al-Qassam il suo braccio armato, stimato in almeno 20 mila uomini. Altri 5 mila militano nella Jihad islamica, formazione concorrente e vicina all’Iran. Della galassia dell’estremismo fanno parte anche i Comitati di resistenza popolare e hanno fatto la loro comparsa pure sparute formazioni salafite. Attraverso i tunnel con l’Egitto (e si sospetta anche via terra) sono passati molti missili da quando la frontiera è diventata più permeabile, cioè dopo la destituzione di Hosni Mubarak e l’arrivo al potere dei Fratelli musulmani di cui Hamas è una filiazione. L’aviazione di David ha distrutto, nell’operazione "Colonna di Nuvola", 19 centri di comando, 26 tra fabbriche e depositi di armi, 980 postazioni lancia-missili stando al resoconto ufficiale. Da Gaza sono stati sparati sul territorio israeliano 848 razzi, l’85 per cento dei quali sarebbero stati intercettati dal sistema di difesa "Iron Dome". Negli arsenali di Hamas restano tuttavia, secondo le analisi degli esperti, almeno 20 mila missili. Non solo i vecchi kassam di gittata limitata, 17 chilometri, ma anche altri più sofisticati come i Fajar-5, che i palestinesi sarebbero capaci ora di costruire anche in loco, in grado di raggiungere, come è stato sperimentato, anche Tel Aviv e i sobborghi di Gerusalemme. In quel raggio vasto abitano 3 milioni e mezzo di israeliani. Non solo il Sud del paese, insomma, è ora minacciato. Lo stesso presidente Shimon Peres, premio Nobel per la pace, ha tracciato una linea chiara: «Noi non abbiamo nulla contro la popolazione di Gaza, non abbiamo nessun interesse che soffra e vorremmo vivesse una vita felice. Però ci sono alcuni gruppi terroristici che, senza alcun motivo, bombardano il nostro territorio. Abbiamo lasciato Gaza e nonostante questo veniamo attaccati. Ci sono le nostre donne che hanno diritto a dormire la notte e a non aver paura che le bombe colpiscano i loro figli nel sonno. Tutto questo è inaccettabile e deve avere una fine». Esiste una linea che sta prendendo piede anche in Israele (ad esempio è stata sposata anche da un giornale conservatore come il "Jerusalem Post") per la quale Hamas deve essere considerato responsabile di tutto quanto avviene a Gaza, visto che detiene il potere, e se dalla Striscia partono missili, anche sparati da altri gruppi, si debba reagire punendo quello "Stato". Sarebbe un implicito riconoscimento del Movimento, oltre le ipocrite formule che sono comunque il sale della diplomazia: con Hamas, seppur per interposto Egitto, si è sempre trattato e si continuerà a trattare.
La stessa tregua in atto è stata il frutto di una mediazione peraltro invisa alla maggioranza degli israeliani. Stando ai sondaggi il 49 per cento avrebbe preferito che "Colonna di nuvole" continuasse (il che significa: scatenando l’offensiva di terra) contro il 31 per cento che è per la fine. Ma un’invasione avrebbe portato a perdite di vite umane consistenti e non avrebbe risolto alla radice la questione: lo testimonia l’altra guerra di Gaza, "Piombo fuso" (dicembre 2008-gennaio 2009) dopo la quale Hamas si è ricostruita e rafforzata. Il mancato segnale d’attacco alle truppe sta costando caro tuttavia al premier Benjamin Netanyahu. Aveva toccato il picco di popolarità quando ha mosso l’aviazione ed è in rapida discesa dopo lo stop. L’ultimo sondaggio pubblicato dal quotidiano "Maariv" accredita al suo partito, il Likud, e agli ultranazionalisti di Israel Beitenu del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, con cui si è alleato, 37 seggi contro gli attuali 42. L’intera coalizione di governo resterebbe maggioranza seppur più debole. Crescono i laburisti di Shelly Yachimovitch che erano diventati pressoché insignificanti (da 13 a 22), crolla Kadima, la creatura di Ariel Sharon (da 28 a 2) e infatti la sua esponente di spicco Tzipi Livni vara un’altra formazione. Mentre esce di scena Ehud Barak, il ministro della Difesa ed ex premier, il soldato più decorato della storia di Israele, che ha deciso di ritirarsi e di offrire semmai la sua preziosa consulenza a chi siederà sulla poltrona che scotta. Un totale rimescolamento e un’incertezza che non fa bene a un Paese bisognoso di una limpida e forte guida per affrontare le sfide decisive che lo aspettano.
Perché non c’è solo Gaza. Se negli arsenali della Striscia ci sono 20 mila missili, almeno il doppio (per gli americani addirittura 50 mila) dimorano in sonno, ma fino a quando?, nei bunker degli Hezbollah libanesi nella fascia a sud del fiume Litani, dove, è bene ricordarlo, ci sono anche i soldati italiani su mandato dell’Onu, dopo il cessate il fuoco che ha congelato la guerra il 14 agosto 2006. Da allora solo qualche sporadico tiro e piccole scaramucce d’assaggio. Ma non bisogna dimenticare lo schema già usato sei anni fa: tensioni a Gaza e rapimento del soldato Gilad Shalit e, subito dopo, pioggia di razzi dal Libano per impegnare Tsahal su più fronti. Lo sceicco Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, non ha mancato di fare sentire la sua voce dagli altoparlanti di uno stadio gremito: «Israele è oggi più fragile della tela di un ragno. Se è stata scossa da una manciata di Fajr 5, come gestirebbe le migliaia di missili che colpiranno Tel Aviv e oltre in caso di attacco al Libano?». Gli attacchi si sa, possono essere provocati, come fu in passato e lo sceicco sa di cosa parla. Non solo ha gli stessi Fajr, ma anche gli Scud D, evoluzione degli SS1 a corto raggio di produzione sovietica, e con quelli minaccia l’intero Stato ebraico, salvo l’estremo lembo meridionale che affaccia sul Mar Rosso. Della stessa gittata anche gli M-600, una variante di produzione siriana dei Fateh-110 iraniani. Le vie delle armi sono infinite. Se Hezbollah si approvvigiona via terra attraverso la dorsale sciita che ha origine a Teheran, quelle per Gaza hanno la stessa origine in Iran, volano smontati in pezzi fino in Sudan da dove risalgono l’Africa attraverso il Sinai fuori da ogni controllo statuale. Non a caso esiste il forte sospetto che aerei israeliani abbiano bombardato proprio un deposito nei pressi di Khartum nonostante la notizia non sia stata mai confermata né smentita.
A completare un quadro già sufficientemente fosco, portano una certa inquietudine a Gerusalemme anche le vicende siriane che finora hanno coinvolto solo le alture del Golan a causa di colpi finiti oltre confine. E la Giordania con cui esiste un trattato di pace è scossa da proteste contro la casa regnante: nel Paese metà della popolazione è palestinese.
Israele non si troverebbe, letteralmente, in questo mare di guai se avesse fatto almeno qualche progresso il processo di pace coi palestinesi per arrivare alla soluzione ovvia dei due Stati per i due popoli. La mossa di Abu Mazen di rivolgersi all’Onu per vedersi riconosciuto lo status di Paese non membro, a qualunque risultato pratico porti nel futuro, è frutto della disperazione per uno stallo di cui Bibi Netanyahu è largamente responsabile, visto che ha creduto che fosse preferibile procedere con uno status quo che ha deteriorato i rapporti nella regione. È proprio per rilanciare un dialogo politico con la controparte che ha voluto scendere in campo alle prossime elezioni, nel partito centrista di Yair Lapid, un personaggio prestigioso come Yacov Perry, ex capo dello Shin Bet, l’agenzia di intelligence interna, e presidente fino a ieri della Conferenza sulla sicurezza che ha presentato alla Fiera di Tel Aviv le nuove tecnologie del settore. Dall’alto della sua enorme esperienza, Perry è convinto che una soluzione duratura per Israele non può essere militare ma politica. E fa un esempio proprio a partire da "Iron Dome", la cupola di difesa antimissile: «È una fantastica invenzione ma non può coprire tutto il territorio. Ad esempio una batteria che stava nell’area attorno a Gaza abbiamo dovuto spostarla per proteggere il porto di Haifa (infrastruttura cruciale e a portata dei missili di Hezbollah, ndr.)». Israele dispone attualmente di cinque batterie di missili per "Iron Dome" che costano 50 milioni di dollari ciascuna (il prezzo di ogni missile intercettore è di 62 mila dollari), prevede di arrivare ad averne 13. E non sarebbero comunque sufficienti per proteggere l’intero Paese che ormai è a rischio. Senza contare che alcuni razzi sfuggono persino a quel sofisticato e prodigioso sistema che forse non funzionerebbe nemmeno contro gli eventuali ordigni lanciati dall’Iran se dovesse deflagrare il conflitto.
Già, l’Iran. Le urgenze immediate hanno lasciato sullo sfondo che è sempre quello l’incubo maggiore: il programma nucleare di Teheran, l’attacco per impedire che abbia la bomba se dovesse avvicinarsi alla riuscita, la controffensiva degli ayatollah. Dunque andrebbe messa in conto, secondo Perry, una massa enorme di denaro anche per la costruzione di rifugi, la fortificazione di pressoché tutte le case attualmente esistenti perché reggano l’urto degli ordigni. Ma si può vivere in questo modo? A gioco lungo no. Per questo Perry rilancia: «Dobbiamo essere così forti da prendere l’iniziativa e sederci a un tavolo a discutere. Il negoziato può durare anche anni, so che non è facile ma non abbiamo via d’uscita. È nell’interesse di entrambi i popoli, noi e i palestinesi. E io confido anche nella spinta delle giovani generazioni delle due parti». Chiunque vinca le elezioni del 22 gennaio, oltre ad aprire la carta geografica per rendersi conto dove sta seduto, dovrà anche alzare la cornetta, chiamare la Muqata di Ramallah, sede del presidente palestinese, e dire: «Parliamo?».