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 2012  novembre 30 Venerdì calendario

NELLA PRIGIONE DI ASSANGE


Nello scintillante quartiere di Knightsbridge, nel cuore di Londra, a dieci passi dai celebri magazzini Harrods, c’è un palazzo in mattoncini rossi presidiato giorno e notte dagli agenti di Scotland Yard e da uno o due grandi furgoni dotati di antenne che montano occhiute telecamere. È l’ambasciata dell’Ecuador, in cui si è rifugiato l’uomo che ha fatto tremare la Casa Bianca e le diplomazie di tutto il mondo, rivelando crimini di guerra e trattative segrete: Julian Assange. Ed è qui che "l’Espresso" è riuscito a entrare per incontrare il fondatore di WikiLeaks, che è rintanato nella sede diplomatica dal 19 giugno scorso dopo aver passato diciotto mesi agli arresti domiciliari con un braccialetto elettronico che ne controllava ogni movimento. Di fatto, da due anni Assange vive da recluso. E nonostante l’Ecuador gli abbia concesso l’asilo, nessuno sa se riuscirà mai a mettere i piedi fuori dall’ambasciata da uomo libero e come si concluderà questa incredibile avventura che ha portato un uomo di 41 anni abituato a viaggiare per i continenti, senza radici e libero come l’aria, a finire sepolto in una stanza di circa 20 metri quadri, sorvegliato a vista.
Assange ci accoglie alle sette di sera nella stanza dell’ambasciata in cui vive e lavora. Pallido più del solito, avrà perso una decina di chili dall’ultima volta che l’abbiamo visto, a febbraio. Fatica a controllare una tosse stizzosa, sintomo di qualcosa che non va nei suoi polmoni. Quando parla, però, viene fuori la verve di sempre. Forte, concentrato sul suo lavoro. Provato fisicamente, sì. Ma non spezzato nella volontà.
La sede diplomatica è un piccolo appartamento senza giardino, non c’è nemmeno un cortile interno in cui uscire a prendere una boccata di aria fresca. Una cucina rossa lillipuziana: un metro e mezzo per un metro e mezzo. Un piccolo bagno, uno più grande, gli uffici diplomatici e poi, in fondo, la stanza di circa venti metri quadri di Julian Assange. Un’unica ampia finestra all’inglese, in un cui il grigio del cielo di Londra è bloccato da tende spesse che non lasciano scrutare all’interno.
La stanza è divisa in due da una grande libreria, in cui lui ha concentrato di tutto: libri, faldoni, piccole valigette. Dietro gli scaffali c’è giusto lo spazio per un letto. L’accesso a questa cameretta improvvisata è quasi completamente bloccato da un tapis roulant messo alla fine della libreria: è l’unico sistema che gli permette di fare un minimo di esercizio fisico. Nell’area antistante gli scaffali, invece, c’è la porzione di stanza illuminata solo da luce artificiale in cui Julian Assange mangia e lavora: un tavolo rotondo con piccole poltroncine di similpelle nera, una parete zeppa di post it che abbozzano la strategia di WikiLeaks nei prossimi mesi, un caminetto sovrastato da una grande tv. L’impressione è di assedio, con un forte senso di claustrofobia. La mancanza di luce naturale e di aria fresca colpisce subito. Come colpisce la sollecitudine con cui all’ambasciata dell’Ecuador cercano di fare di tutto per rendergli la vita più sopportabile: mentre parliamo, veniamo interrotti da un’addetta che bussa alla porta della stanza e consegna la lista del frigo, domandandogli cosa vuole. Basilico e mozzarella cheese sono due delle richieste.
Ma per quanto Assange potrà continuare a vivere così? Per terra, appoggiata a uno scaffale della libreria c’è una lavagnetta lucida in cui è abbozzato con un pennarello il protocollo medico. A cena osserva una dieta sana a base di pesce e verdure fresche, sorseggia con piacere un vino argentino. Si dice convinto che il procedimento svedese contro di lui per violenza sessuale crollerà e racconta con un filo di amarezza del film che la DreamWorks di Steven Spielberg sta mettendo in cantiere. «Il copione è blindato», spiega con un sorriso. Ma il progetto rischia di essere una nuova campagna contro di lui e contro WikiLeaks, che verrebbe rappresentata come una sorta di setta oscura da cui l’ex portavoce, Daniel Domscheit Berg, si è salvato grazie all’intervento della moglie.
Ma la fiction non è la preoccupazione principale. A turbarlo è l’inchiesta del Grand Jury in corso negli Usa, che potrebbe portare all’incriminazione sua e di altri membri di WikiLeaks per spionaggio, dopo avere pubblicato i documenti segreti del governo americano. È per questo che si è rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana, convinto che l’estradizione in Svezia sia solo il primo passo per quella negli Usa. Agli inizi di novembre la rivista "Wired", bibbia dei talenti del computer, ha rivelato che l’inchiesta è ancora in corso, citando il giudice Liam O’ Grady del distretto di Alessandria in Virginia.
Usciamo dalla stanza di Assange a mezzanotte e lo lasciamo sveglio e lucido davanti ai suoi computer: sul tavolo, appena arrivati, abbiamo contato cinque piccoli laptop. Fuori la presenza degli agenti di Scotland Yard sembra ridotta al minimo. E invece no. Assange ci fa fare un giro delle stanze: sotto la finestra del bagno ce n’è un altro appostato. Apre la tenda che sovrasta il letto, e ne indica un altro agente nell’edificio accanto, che si intravede da una vetrata. A tutte le ore del giorno e della notte è circondato. Scappare è impossibile.
Il giorno dopo lo ritroviamo in quella stanza, il numero dei computer è aumentato. Siamo a sette. Assange si distoglie dalle macchine che lo tengono in contatto con le sue armate nel cyberspazio e comincia l’intervista.
Negli Stati Uniti è in corso l’inchiesta segreta del Gran Jury contro di voi...
«Negli Usa c’è il Gran Jury, ma anche le azioni legali che noi abbiamo intrapreso contro lo stesso Gran Jury, il caso Bradley Manning (la presunta fonte che avrebbe passato i documenti segreti a WikiLeaks) e le cause che abbiamo intentato contro le carte di credito per il blocco dei finanziamenti a WikiLeaks».
La vostra difesa ha fatto richiesta dell’intero faldone di documenti, che è di circa 40 mila pagine.
«No, a dicembre 2011 il faldone dell’Fbi era di 42.135 pagine, secondo quello che ha testimoniato al processo Manning un ufficiale del governo. Di queste, meno di 9.000 riguardano l’inchiesta su Bradley Manning, il resto riguarda l’indagine su WikiLeaks. Abbiamo fatto richiesta della documentazione usando il Freedom of Information Act, ma ci è stato negato l’accesso dicendo che l’inchiesta era ancora in corso».
L’inchiesta è completamente segreta?
«Sì, anche se molte informazioni sono venute fuori in modi inaspettati. Per esempio, il Dipartimento della Giustizia quest’anno ha bandito una gara per i computer che gestiscono i documenti dell’indagine: la spesa è stata valutata tra uno e due milioni di dollari».
I giudici americani hanno chiesto i dati Twitter di alcuni simpatizzanti di WikiLeaks, ma non quelli di Daniel Domscheit Berg, che è stato il portavoce e assieme a lei il volto più noto di WikiLeaks. Come lo interpreta? È chiaro, siamo nel campo delle opinioni...
«Alcuni dicono che lui abbia fornito informazioni all’Fbi, ma non quando era nell’organizzazione, per quanto ne so io. L’ho sospeso da WikiLeaks nell’agosto 2010 per una serie di ragioni».
Un altro mistero sono i documenti che Daniel Domscheit Berg avrebbe portato via, dopo aver rotto con WikiLeaks. Circa tremila file. Era materiale di valore?
«Sì, è stata la nostra più grande perdita. Fortunatamente eravamo strutturati sia ora soprattutto, ma anche allora, in modo che anche una persona all’interno, come Domscheit Berg e il suo amico tedesco, non potessero accedere all’identità delle fonti che ci avevano inviato quei documenti».
C’erano anche i documenti bancari, secondo quanto lei aveva detto l’ultima volta che ne abbiamo parlato.
«Quelli erano in un diverso sistema informatico. Quindi è una storia differente. La parte più significativa era la documentazione video di crimini di guerra in Afghanistan, dove circa 100 persone sono state uccise».
Un grande danno, dunque.
«Sì, ma è lo scontro con gli Stati Uniti che ha creato un’immensa pressione su di noi e ha aperto lo spazio agli opportunisti. Un conflitto di tale intensità scatenato a tutti i livelli contro di noi: a livello di Stato, di intelligence, di politica, a livello legale, finanziario e di attacchi mediatici. È un’esperienza impossibile da comprendere se non la si prova sulla propria pelle. Ma ora il sostegno alla nostra organizzazione è molto robusto, perché siamo sopravvissuti a tutto: alle difficoltà finanziarie, alla campagna di diffamazione e agli arresti di alcune fonti».
Anche supporter come Anonymous, però, vi hanno attaccato pesantemente attraverso l’account Twitter AnonymousIRC. C’è un gruppo di Anonymous che è ancora vicino a WikiLeaks?
«Noi possiamo vedere dai commenti pubblici che ce ne sono molti di vicini. I sospetti di infiltrazioni di "AnonymousIRC" circolano da molto tempo nel collettivo».
Come pensa di portare avanti WikiLeaks da questa ambasciata?
«Non ho mai sviluppato WikiLeaks camminando per le foreste o arrampicandomi sugli alberi. È lavoro intellettuale, richiede moltissimo lavoro di gruppo e di ingegneria informatica: tutte cose che posso fare da questa ambasciata. E WikiLeaks è molto più che Julian Assange: è una comunità attiva quasi in ogni Paese».
La rete esiste ancora e lavora con lei?
«Sì, e la cosa interessante è che nel corso di questo ultimo anno e mezzo i supporter hanno cominciato a incontrarsi, passando da relazioni on line a off line, personali».
Quindi non si sente solo anche se confinato in questa ambasciata?
«Mi sento solo in altri sensi, non in quello del sostegno».
Si sente sostenuto da questa rete?
«Tremendamente sostenuto».
L’ha colpita l’aiuto inaspettato di qualcuno?
«È stato incoraggiante ricevere il supporto dell’ala libertaria dei Repubblicani Usa, Ron Paul, ma non solo lui».
C’è chi pensa che WikiLeaks non metterà mai più a segno un colpo come il Cablegate (la pubblicazione delle comunicazioni riservate della diplomazia statunitense), perché imprigionare la vostra presunta fonte, Bradley Manning, processarlo con la minaccia della pena di morte o dell’ergastolo, serve a mandare un messaggio: chiunque si azzarderà a inviarvi documenti segreti importanti, si ritroverà con la vita distrutta.
«Mi sta dicendo che quando un soldato muore in guerra, nessun altro soldato morirà più in guerra? Le nostre fonti hanno una grande dedizione. Quello che pubblicazioni come i cablo e altre rivelazioni hanno dimostrato è che attraverso il coraggio, l’intelligenza e la consapevolezza una fonte di WikiLeaks può cambiare il mondo».
Quindi lei ha fiducia nel genere umano?
«Sì».
Lei ha dichiarato: «Se uno crede in qualcosa, deve essere disposto a pagare il prezzo. E questo va bene. Il mio più grande dolore è che questo è un prezzo che i miei figli non sono stati d’accordo a pagare».
«È vero» (lo dice con un filo di voce).
Quando ha visto per l’ultima volta i suoi figli?
«Non posso fare commenti sulla mia famiglia, per ragioni di sicurezza».