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 2012  novembre 30 Venerdì calendario

E ORA VI ROTTAMIAMO


Qualcuno le ha già chiamate le primarie dei due vincitori, Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi. Senza rendersi conto che l’espressione fu già utilizzata da Aldo Moro per descrivere il risultato delle elezioni politiche più incerte della Prima Repubblica, nel 1976. Quando il Pci guidato da Enrico Berlinguer tentò di superare la Dc come partito di maggioranza relativa. Alla fine il sorpasso non riuscì, la Balena Bianca mantenne il primato con il 38 per cento dei voti, ma i comunisti volarono al 34,4, il massimo storico, risultato mai più raggiunto. Così in caso di vittoria al ballotaggio del 2 dicembre Bersani potrà vantare di avere vinto la scommessa: legittimare la sua candidatura a premier con un voto popolare e non con una manovra di palazzo. Ma il sindaco di Firenze ha già raggiunto il suo obiettivo: cambiare in profondità i punti di riferimento, i linguaggi, i volti, il paesaggio finora conosciuto del centrosinistra. Nulla sarà più come prima. Anzi, già non lo è più.
Basta sfogliare i dati del primo turno. Una geografia sconvolta. Lo sfidante Renzi sfonda nelle regioni rosse, conquista le roccaforti della Ditta ex Pci in Toscana, il 57 per cento in provincia di Pistoia, il 54 per cento a Siena, il 62 per cento ad Arezzo. E meno male che all’ultima direzione del Pd il segretario regionale Andrea Manciulli lo aveva trattato da intruso: «Renzi non è mai venuto a una nostra direzione». Alla prova dei gazebo ha dimostrato di saper parlare alla base del Pd meglio dei suoi dirigenti. E poi l’Umbria, le Marche, Modena, Imola, Forlì e Cesena dove si ferma a pochi punti dal primo segretario venuto dalla via Emilia. Bersani risponde nelle grandi città dove conta il voto d’opinione, a Milano e a Roma dove sfiora il 50 per cento, e nelle regioni del Sud dove è un trionfo: il 50 per cento in Campania, con il 64 per cento nella Salerno del sindaco Vincenzo De Luca, il 51 in Sicilia (con il 61,2 per cento a Enna dove domina il senatore Mirellino Crisafulli) e il 54 per cento in Calabria, con il plebiscito di Vibo Valentia, il 72 per cento contro il misero 13 di Renzi: merito del capo locale Francesco De Nisi, un ingegnere quarantenne che ha appreso all’antica scuola democristiana l’arte di catturare i consensi.
Gli ex Pci votano Renzi, gli ex dc Bersani. Un capovolgimento degli stereotipi, Renzi, presentato come un corpo estraneo alla tradizione rossa, galoppa nei collegi sicuri della sinistra. Bersani, raffigurato come il campione del dialogo con i ceti produttivi del Nord, spopola nel Sud più periferico.
Il vero terremoto politico deve ancora arrivare, è previsto per la notte del 2 dicembre alla chiusura dei seggi. Poi sarà il big bang del nuovo centrosinistra, comunque vada. Il nuovo inizio atteso, auspicato, temuto. «Abbiamo già dimostrato con il risultato del primo turno che c’è un elettorato mobile che vota un leader dinamico», spiega Francesco Clementi, giovane costituzionalista romano, l’uomo delle politiche istituzionali di Renzi: «Il popolo del centrosinistra è meno conservatore del suo establishment, capi logori che in gran parte non rappresentano più i loro territori. Serve una nuova classe dirigente». «Se vince la sfida del ballottaggio Bersani sarà un trasformatore di energie. Ricorda le ore di applicazioni tecniche alla scuola media? Ci spiegavano che bisognava eliminare i residui alcalini. Ecco: Bersani può aiutare Renzi a togliere le scorie della sua proposta e a trasformarla in energia positiva», prevede Miguel Gotor, storico esperto di santi ed eretici del Cinquecento ed esegeta delle lettere di Moro dalla prigione delle Brigate Rosse, oggi il più ascoltato consigliere del segretario del Pd che gli ha affidato la sua campagna per le primarie. È già, a risultato ancora incerto nonostante i nove punti che separano i duellanti, l’offerta di un patto post-elettorale tra Bersani e Renzi che gran parte dell’attuale nomenclatura democratica vede come l’anticamera della fine. «Ho sostenuto Bersani con lealtà, sono l’unico che si è impegnano ventre a terra in tutta Italia, ma dopo il ballottaggio dirò basta», si sfoga l’ex ministro Giuseppe Fioroni: «Se vince Bersani farà un partito socialdemocratico, stringerà con Renzi un accordo di potere. E noi saremo fatti fuori tutti».
Fioroni, ex popolare legato al leader della Cisl Raffaele Bonanni, guarda verso la lista per Monti che sta organizzando la coppia Montezemolo-Riccardi. Fu eletto sindaco di Viterbo quando aveva appena 31 anni e sofficemente, alla democristiana, rottamò i nemici interni. Al primo turno nel suo feudo è stato sonoramente sconfitto da Renzi, 45 per cento contro il 31 di Bersani, risultato clamoroso perché Viterbo è anche la città di Ugo Sposetti, l’ex tesoriere dei Ds che ha passato gli ultimi due mesi a denunciare le spese della campagna elettorale del sindaco di Firenze. Due esponenti di spicco del caminetto di capicorrente, il Sinedrio che ha comandato il Pd e prima ancora la Quercia e la Margherita negli ultimi quindici anni. E che teme di essere travolto quando dopo il secondo turno bisognerà ristabilire i pesi interni al partito.
D’Alema si è già messo fuori da solo dal prossimo Parlamento. Veltroni lo aveva preceduto nell’annuncio del ritiro da Montecitorio, i suoi uomini si sono divisi tra Bersani e Renzi, il primo segretario del Pd è rimasto in disparte. Ma non ci sono solo i dioscuri cresciuti a Botteghe Oscure. L’effetto primarie sarà ancor più pesante su quel che resta dei big nati nella Balena Bianca, stretti tra l’appoggio a Bersani e l’ex Renzi che ha fatto il pieno dei loro consensi. Rosy Bindi resiste e con lei Franco Marini, il più feroce avversario delle primarie, l’unico notabile ad aver avvertito in pubblico il segretario del Pd sul rischio mortale: «Attenzione, Pier Luigi, se perdi ci schiantiamo tutti». Enrico Letta è apparso la notte del primo turno precocemente invecchiato. Dario Franceschini, che Renzi definì impietosamente «il vice-disastro», si è defilato: puntava alla segreteria con Bersani a Palazzo Chigi, obiettivo sfumato, ora in caso di vittoria del centrosinistra mira a una carica istituzionale o a un posto di ministro nel nuovo governo.
Fino a qualche settimana fa poteva apparire un’ambizione facile da soddisfare. Così come potevano coltivare le loro legittime aspirazioni personali in un futuro governo Bersani tutti gli altri capicorrente. «Per ogni casella di governo ci sono almeno due nomi che pensano di aver in tasca la poltrona», raccontano nel Pd. Una falange di candidati e di auto-candidati. Ma ora lo spariglio nei gazebo rende gli organigrammi progettati in un’altra epoca un gioco di società e nulla più. «C’è la consapevolezza in Bersani che dopo il governo Monti non si può tornare indietro, al manuale Cencelli tra le correnti per nominare i ministri. Servono autorevolezza e competenza, bisogna alzare il livello», annuncia Gotor. Via le vecchie facce, dentro i tecnici animati da passione politica. L’identikit, ad esempio, di un ministro dell’attuale governo, il più apprezzato da Bersani, il titolare della Coesione territoriale Fabrizio Barca, super-citato anche da Renzi durante il tour in giro per l’Italia con il camper. Ma anche di un politico di professione dalla robusta esperienza amministrativa: il presidente dell’Emilia Vasco Errani, il Gianni Letta di Bersani, il capo del Tortellino magico che circonda il segretario.
Nella squadra di governo di Renzi ci sono l’eretico Pietro Ichino (suo il discorso più applaudito all’assemblea della Leopolda a Firenze: «Le roccaforti della sinistra oggi non stanno tra chi rischia di più, ma tra chi rischia di meno») e lo scrittore Alessandro Baricco. E poi l’emergente sindaco di Reggio Emilia Graziano Del Rio, il presidente dell’Anci, firmatario con l’ulivista Arturo Parisi di un appello per Renzi. Ma prima c’è da riscrivere l’assetto del Pd. Con Bersani si sono schierati il 95 per cento dei parlamentari e tutte le federazioni provinciali, «con me sono rimasti i segretari di Lucca e di Verbania, due eroi», scherza il sindaco. In più, per il segretario si sono pronunciati i tradizionali poteri forti della sinistra, la Cgil di Susanna Camusso, un bel pezzo di intellettualità. Nonostante questo Renzi ha raccolto il 35 per cento di preferenze al primo turno, tutto sul suo nome, e i sondaggi quotano una lista autonoma del sindaco alle elezioni tra il 12 e il 25 per cento. Un bel problema di rappresentanza: l’elettorato renziano negli attuali gruppi dirigenti del Pd non c’è, non esiste. L’ipotesi che il sindaco possa uscire dal partito e correre con una lista personale è un’ipotesi remota: per ora il Bimbaccio di Firenze intende giocarsi la partita all’interno del Pd dove ci sono le praterie. «Non ci interessa avere un ruolo nella segreteria romana. Abbiamo verificato quanto contano i giovani turchi cooptati dall’alto», sottolinea il renziano Clementi alludendo alle nuove leve bersaniane Matteo Orfini, Stefano Fassina, Roberto Speranza. La sfida più ambiziosa è trovare spazio alla Camera e al Senato per il gruppo renziano, «il partito degli eletti contro il partito della burocrazia». Un 30-40 per cento dei futuri gruppi parlamentari che in caso di vittoria del centrosinistra equivalgono a un centinaio di deputati e a 50 senatori. Determinanti per le future sfide: il nuovo governo, l’elezione del presidente della Repubblica, soprattutto, con attenzione per il padre nobile Romano Prodi che ha benedetto le primarie ma è rimasto neutrale. Il bersaniano Gotor non rifiuta il discorso, anzi:«Bersani è stato il tessitore dell’operazione primarie, ma per tessere aveva bisogno del telaio, di Renzi. E se Pier Luigi vince, Matteo potrà contare su un patrimonio di consensi che nessun altro leader ha mai avuto». Torna l’immagine dei due vincitori del ’76, ma a parti invertite. L’ex comunista Bersani assomiglia oggi al democristiano Moro, è accogliente, sornione, paziente, inclusivo. Deve tenere dentro tutti, Renzi compreso, per mantenere il Pd sopra il 30 per cento nei sondaggi. Mentre, a dispetto delle apparenze, in queste primarie il rampante Renzi ha conquistato lo stesso ruolo che ebbe l’austero Berlinguer negli anni Settanta: raccogliere le energie, le richieste di una parte della società che non si sente rappresentata dalla politica, i giovani in particolare. Nel ’76 il sorpasso non riuscì e i due vincitori trovarono l’accordo. È il patto che Bersani propone allo sfidante: oggi tocca a me, domani a te. Nella previsione di una legislatura che non durerà cinque anni. Il massimo compromesso possibile. Perché se invece al ballotaggio dovesse vincere Renzi si aprirebbe davvero tutta un’altra storia.