Bill Emmott, l’Espresso 30/11/2012, 30 novembre 2012
CRISTO SI È FERMATO A TARANTO
Quando arrivi in un Paese straniero, amano dire scherzosamente i giornalisti, dovresti scrivere un libro su di esso un mese dopo. Da quel momento, quel che appariva chiaro sembrerà più complesso e il tuo sguardo sarà appannato dall’amore oppure dall’odio. La mia esperienza con l’Italia è stata diversa. Per scrivere due libri e adesso un film ho viaggiato a lungo in questo Paese, ma questo mi ha fatto apparire le cose più semplici e chiare, non più complesse, anche se sotto una luce più triste e pessimista.
Il mio film-documentario, "Una fidanzata in coma" uscito il 26 novembre a Londra, dimostra che in quella battuta scherzosa c’è del vero: io mi sono innamorato dell’Italia. Questo è capitato spesso agli stranieri, ma il mio amore si è accompagnato, fin dall’inizio, all’esasperazione. Il film, di conseguenza, cerca di spiegare in che modo le enormi potenzialità dell’Italia siano state frustrate negli ultimi vent’anni, sotto la spinta delle forze della corruzione, dell’illegalità, dell’egoismo, del clientelismo e, cosa ancor più triste di tutte, dell’autocompiacimento e dell’ignavia.
Il messaggio che se ne trae è che l’Italia non versa solo in una crisi economica o politica come altre nazioni, ma è in coma. Il vostro è un Paese bellissimo, non nel senso del noioso clichè del "Bel Paese", ma perché l’entusiasmo, la creatività, gli istinti imprenditoriali e le energie individuali degli italiani si fondono con un forte spirito comunitario e un attaccamento alla famiglia, di cui molti altri europei sono gelosi. Eppure quelle virtù, così utili nei decenni del dopoguerra, sono state sopraffatte. L’Italia è entrata in coma per colpa degli italiani stessi. Non si tratta solo di un malessere economico, ma anche e soprattutto morale.
Formalmente, il film getta uno sguardo sull’Italia vista dall’estero, attraverso i miei occhi inglesi. Ma in realtà il viaggio, e le storie che racconto, sono più il condensato di quel che ho udito che di quel che ho visto. Il motivo per cui i miei sentimenti verso l’Italia sono diventati più tristi e pessimisti deriva essenzialmente dal fatto che ho ascoltato un numero sempre più grande di italiani. Sono le loro voci che predominano nel film, non la mia, insieme alle loro emozioni, speranze e disperazione.
Il film, spero, richiamerà alla mente gli articoli apparsi sull’"Economist" undici anni fa, da cui è iniziato il mio interesse per l’Italia, quando scrivevo che Berlusconi era inadatto a governarla. In quegli articoli riportavo informazioni di pubblico dominio e cercavo di spiegare quale fosse la rilevanza. Facevo dei collegamenti, per ricavare un quadro d’insieme, il significato più ampio di quanto accadeva. La stessa cosa ho cercato di fare, insieme alla regista italiana, Annalisa Piras, in questo documentario.
Durante il viaggio ho imparato tre cose molto importanti. L’esperienza più sconvolgente, ma anche più rivelatrice, l’ho fatta nel profondo sud, a Taranto. Abbiamo effettuato le riprese in febbraio, mentre faceva un freddo insolito per la Magna Grecia, ma la situazione cominciava a diventare scottante per la grande acciaieria dell’Ilva poiché il giudice Patrizia Todisco stava aprendo una causa contro il gruppo Riva, proprietario del complesso siderurgico, per crimini ambientali. Oggi, e soprattutto negli ultimi mesi, quando la magistratura ha cercato di chiudere gli impianti, tutti conoscevano la verità sull’Ilva. Il governo centrale non sapeva come destreggiarsi di fronte al dilemma fra la difesa della salute e quella dei posti di lavoro, mentre le amministrazioni locali hanno cercato di sottrarsi alle proprie responsabilità. Ma quel che mi ha colpito, già in febbraio, è quanto poco i cittadini fossero informati fino ad allora e quanto poco se ne erano preoccupati nei cinquant’anni precedenti. E quando parlo di "cittadini" penso a quelli di tutto il resto d’Italia. Nell’approfondire gli antecedenti del caso e del rapporto sui decessi causati dall’inquinamento, commissionato dal giudice a medici esperti indipendenti, sono rimasto stupito nel constatare lo scarso interesse dei media nazionali per questo problema. Ascoltare i cittadini di Taranto che parlavano dell’inquinamento, con cui convivevano da lungo tempo, era come porgere orecchio alla disperazione di chi viene ignorato, abbandonato a se stesso e, soprattutto, si sente in trappola. Durante le riprese a Taranto mi sono ricordato di una visita a una città cinese dove l’inquinamento prodotto da una fabbrica in pieno centro sta provocando sofferenze, ma gli abitanti che protestano si sentono ignorati sia dai politici, a tutti i livelli, sia dai media nazionali. Questo non è sorprendente nella Cina moderna. Ma è stato uno shock nella moderna Europa.
L’inquinamento di Taranto rappresenta, certamente, un fallimento del capitalismo, ma ancor più del governo e della politica, che in Europa dovrebbero essere i regolatori del capitalismo con il compito di proteggerci dalle sue peggiori conseguenze. In parte, però, è stato anche uno shock indiretto, e qui sta la lezione più grande che ne ho tratto: il constatare l’evasione dalla realtà e la sua negazione. Questa è stata la seconda cosa più importante che ho imparato. Già mi ero reso conto che i cittadini si erano rifiutati di vedere la verità del declino in Italia, soprattutto negli ultimi dieci anni. Ma quel che mi ha sorpreso, dopo la crisi finanziaria del 2011 e il passaggio al governo Monti, è che tutto continuava come prima.
Questo è particolarmente evidente nelle questioni finanziarie. Ho sentito ripetere un’infinità di volte delle falsità allo scopo di dimostrare che la realtà non è poi così negativa. Come ad esempio, che i risparmi delle famiglie italiane sono elevati, per cui il debito pubblico può facilmente essere finanziato (ma la verità è che il tasso di risparmio è sceso nettamente negli ultimi dieci anni). Che va tutto bene perché le famiglie sono ricche (certo, possiedono beni immobili, ma questo li rende simili all’aristocrazia inglese in declino nel secolo scorso, che possedeva patrimoni ma era priva di reddito, per cui alla fine l’unica scelta che le restava era di venderli). Che l’Italia può contare sulla sua solida industria manifatturiera (oggi però essa rappresenta solo un sesto del Pil, mentre il vero problema del Paese è l’arretratezza del settore dei servizi, paralizzato dagli ostacoli frapposti alla concorrenza, all’affermazione del merito e alla creatività).
Questo desiderio di aggrapparsi a vecchie certezze ormai infondate, perché sono confortanti, è comprensibile. Succede lo stesso in tutti i Paesi. L’Italia però si contraddistingue per il fatto che la percezione della realtà economica sembra ferma agli anni Settanta. Ciò forse non dovrebbe sorprendere in un Paese che da allora a oggi ha quasi la stessa percentuale di operai sindacalizzati, mentre in altri due grandi Paesi manifatturieri, come la Germania e il Giappone, i sindacati hanno perso quasi la metà dei loro iscritti. Questo spiega perché in Italia si continui a discutere infinitamente sulle leggi e i diritti e molto poco sulla creatività, l’innovazione e l’impresa che è la prima fonte di occupazione. Viaggiando per l’Italia, ho avuto la sensazione che fosse paragonabile a un potente computer con un grande hardware, che non era riuscita però ad aggiornare il software. È certamente tempo che si sobbarchi la pena di farlo e affronti le nuove sfideW.
Naturalmente, come in ogni viaggio, sia su un mini-bus con la troupe al seguito, o semplicemente navigando su Internet, si scoprono tantissime persone che sanno quali cambiamenti sono necessari. Sembra ci siano più "manifesti" su ciò che bisogna riformare di quanti siano gli italiani. C’è invece ancora troppo poco consenso nell’individuare ciò che ostacola queste riforme: quali atteggiamenti, quali comportamenti e, soprattutto, quali potenti gruppi di interesse stanno bloccando il progresso e la rinascita del Paese.
Questa è la terza cosa importante che ho imparato dal mio viaggio. Il problema non è quello di escogitare politiche o programmi innovativi, ma di stabilire, di comune accordo, quali ostacoli bloccano le riforme, la giustizia, la capacità d’iniziativa e la crescita. Questo consenso, d’importanza vitale, è più sfuggente che mai quanto più l’Italia è divisa, discorde e litigiosa mentre le prospettive si appannano e nulla si muove. È proprio questa sensazione di urgenza e di emergenza che mi ha portato a pensare che quanto ho imparato durante le riprese del mio film non dovrebbe concludersi con la parola "Fine". Abbiamo deciso così di avviare, sul sito ad esso dedicato, www.girlfriendinacoma.eu, un dibattito tra gli italiani, residenti in patria e all’estero, su quali siano i veri ostacoli che impediscono l’aggiornamento del software necessario a dare nuovo impulso al Paese. Lo abbiamo fatto, come nel film, con la speranza che gli italiani possano rispecchiarsi nei punti di vista di un outsider vedendosi come sono senza preoccuparsi di chi è comunista o di chi non lo è (e io non lo sono mai stato, né potete pensare realisticamente che sia uno di sinistra), ma avendo a cuore soltanto il futuro del loro Paese.
Per iniziare questo dibattito, offro le mie idee su chi sono i veri responsabili della paralisi. Ma gli italiani sono molto più esperti di me e i loro punti di vista sono molto più preziosi. Fatemi sentire la vostra voce. L’Italia può risvegliarsi dal suo coma. Dipende da voi.
traduzione di Mario Baccianini