Ignazio Marino, l’Espresso 30/11/2012, 30 novembre 2012
ILVA E A CAPO
A volte non serve attendere gli studi epidemiologici per intuire che qualche cosa non va. Che in una città come Taranto sono troppe le persone che si ammalano di tumore, che non è normale che tante donne finiscano in ospedale per problemi respiratori o che i bambini abbiano i polmoni che sembrano quelli di un fumatore incallito. Infatti non è dopo aver letto i rapporti scientifici che l’ordine dei medici della provincia pugliese ha spiegato ai genitori del quartiere Tamburi, il rione popolare all’ombra delle ciminiere dell’Ilva, di non lasciare i loro figli giocare con la terra o correre nei prati, sollecitandoli a fare la doccia quando tornano a casa e a lavare ogni giorno tutti i vestiti.
No, a volte non serve. Ma comunque gli studi esistono e i dati sono certi, testardi, non opinabili. Lo studio Sentieri, condotto dall’Istituto superiore di sanità, ha chiarito una volta per tutte lo stato di compromissione della salute della popolazione di Taranto. La mortalità nell’area dell’Ilva è superiore dell’11 per cento rispetto all’aspettativa di morte di tutti i cittadini pugliesi. E sono soprattutto le donne a soffrire: 75 per cento in più di tumori al fegato rispetto al resto della popolazione, 43 in più di linfomi non Hodgkin, 80 dei tumori all’utero, 48 di quelli alla mammella, 100 per cento allo stomaco e 48 ai polmoni. Nella popolazione maschile non va meglio, con un aumento del 30 per cento di tutte le neoplasie e un picco del 100 in più per il mesotelioma pleurico, quel terribile tumore incurabile che avvolge come in una rigida ragnatela la superficie dei polmoni e nel giro di pochi anni soffoca il malato, togliendogli il respiro tra atroci dolori che solo la morfina riesce a lenire. Lo studio Sentieri stabilisce anche un altro fatto: «Lo stabilimento siderurgico, in particolare gli impianti altoforno, cokeria e agglomerazione, è il maggior emettitore nell’area per oltre il 99 per cento del totale ed è quindi il potenziale responsabile degli effetti sanitari correlati al benzopirene». Dunque la colpa è dell’Ilva.
Dietro ai dati che fanno rabbrividire, ci sono persone in carne e ossa. Drammi umani, ricoveri in ospedale, bombole di ossigeno, chemioterapia, famiglie cancellate, orfani. L’ombra della morte che cala su un’intera comunità. Se non si capisce tutto questo, o si fa finta di non voler capire, allora non si è in grado di comprendere il valore del diritto alla salute.
Mi chiedo se tutti coloro che sono stati a vario titolo coinvolti nella vicenda avessero chiaro in testa quanti danni facevano: chi ha aggirato illegalmente le norme ambientali e la sicurezza dei lavoratori e dei cittadini, chi non ha fatto i controlli, chi ha chiuso i documenti in un cassetto per non avere grane. Sono tutti colpevoli, complici del ricatto di chi contrappone il diritto alla salute con il diritto al lavoro. Ed è sotto questo profilo che si consuma l’altro dramma, quello dei lavoratori che, se perdono lo stipendio, non possono più pagare l’affitto, la rata della macchina, la pizza la domenica sera. Tasselli di vite che si incrinano. Per non parlare del danno al suolo, al sottosuolo, alle acque e ai sedimenti marini, inquinati per chissà quanto tempo, divenuti pericolosi.
La salute, il lavoro, l’ambiente: sono i drammi di Taranto e di molte altre realtà industriali in cui per decenni si è andati avanti nella totale infrazione delle leggi, con la copertura delle istituzioni e la latitanza degli organismi incaricati dei controlli.
Sull’Ilva si è sempre preferito fare finta di nulla, anche l’estate scorsa il ministero dell’Ambiente pur intervenendo ha comunque evitato di affrontare di petto una situazione già molto compromessa, mentre l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale (Arpa) si è trovata nelle condizioni di non poter svolgere il proprio ruolo. Alla fine, davanti ai morti, la verità è venuta a galla da sola e nessuno ha più potuto voltare le spalle. E così un potere su tutti si è assunto la responsabilità di agire: la magistratura, perché è suo dovere non ignorare un’ipotesi di reato. I magistrati, negli ultimi mesi, hanno osservato che l’azienda non rispettava i limiti di emissioni fissati dall’Aia (autorizzazione integrata ambientale) approvata dal governo il 19 ottobre, e continuava a mettere in pericolo la salute delle persone e l’ambiente. Di conseguenza ha emesso un’ordinanza per interrompere le attività e ha disposto sette arresti. Il giudici hanno fatto ciò che impone loro la Costituzione, nient’altro. Ma il ricatto "lavoro in cambio di impunità" è ancora sul tavolo.
Ora spetta al governo uscire da questa impasse, con determinazione. Chi ha commesso dei reati farà i conti con la giustizia e lo Stato deve pretendere dalla proprietà dell’Ilva l’avvio immediato dell’opera di bonifica indispensabile a risanare l’area pugliese. Lo può fare in base all’articolo 43 della Costituzione. L’esecutivo preferisce fare ripartire l’attività lasciando all’azienda il controllo delle emissioni tossiche ma non può rimanere per sempre neutrale: deve costituirsi parte civile nell’ambito del processo penale e addossare alla proprietà i costi altissimi delle bonifiche. Se non riuscirà a ottenere almeno questo da chi ha mentito, non ha rispettato gli impegni presi e ha strappato la salute a tante persone viene da chiedersi: a che serve lo Stato? Quale credibilità può avere agli occhi dei cittadini italiani e di tutt’Europa?
La bonifica è l’unica via di salvezza e ciò che va evitato a ogni costo è la chiusura degli stabilimenti e il loro conseguente abbandono. Prima di tutto per il rispetto dei lavoratori, poi per l’importanza del settore siderurgico nel sistema industriale italiano ma anche per la salute e per l’ambiente. Perché, come si è visto in altre circostanze sia al Nord che nel Sud, se l’industria chiude l’area si trasforma in un sito orfano: nessuno se ne occupa più, le opere di riqualificazione e di bonifica non si fanno e il luogo resta per sempre abbandonato pur continuando a inquinare e uccidere.
L’Italia ha vissuto pericolosamente e oggi subiamo molte situazioni ad altissimo rischio di disastro sociale e ambientale, per le quali dovrebbe valere il principio della tolleranza zero: Porto Marghera, Priolo, Gela e molte altre ma le più lampanti sono le discariche dismesse che, nel disinteresse generale, vengono abbandonate, lasciate libere di inquinare terreni e falde a tempo indeterminato.
Per fortuna c’è anche qualche modello positivo, come quello dell’Acna di Cengio, in provincia di Savona. L’Azienda Coloranti Nazionali e Affini. Almeno quattro generazioni, fino al 1999, hanno convissuto con l’impianto industriale che avvelenava tutto, aria, terra, acqua, sottosuolo. E uccideva gli esseri viventi. La bonifica era inevitabile ed è stata condotta con la collaborazione costruttiva tra istituzioni, associazioni ambientaliste, industria e politica, riuscendo anche a superare il blocco della scelta tra il diritto al lavoro e quello alla salute. A Cengio oggi si lavora, si respira, l’erba cresce di nuovo e anche i pesci hanno ripopolato fiumi.