Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 30/11/2012, 30 novembre 2012
«LA MIA FEDE, IL ’68, SANREMO» L’ITALIA SENTIMENTALE DI BAGLIONI
«Credo che l’Italia sia alla vigilia di grandi cambiamenti. Una resa dei conti. Quella politica è imminente: alle elezioni mancano cento giorni. Alle primarie voterei Renzi, perché rappresenta il cambio. Per lo stesso motivo, Grillo oggi è indispensabile. Ma nel giro di tre, quattro anni ci sarà una resa dei conti anche nella società. Il degrado dei rapporti umani, che è cominciato 30-40 anni fa, è ormai insostenibile. È questa la vera crisi, che oltretutto rende più difficile uscire dalla crisi economica. Abbiamo vissuto un’era di ostilità, competizione esasperata, solitudine, insolenza, insulti, demonizzazione del prossimo, odio verso l’altro. Si condannava tutto quanto era sentimentale, buono, positivo, perbene. Si esaltava la trasgressione, il cinismo, la furbizia, il tornaconto. Io invece ho voglia di pacificazione, bellezza, verità, lealtà. Dobbiamo recuperare quel senso di comunità che abbiamo ritrovato dopo la guerra e smarrito dopo il boom degli Anni 60».
Racconta Claudio Baglioni che, dopo dieci anni, è tornato a scrivere un disco di soli inediti. «Uscirà tra sei mesi, e sarà un "On the road", un viaggio nell’Italia di oggi, e non solo perché lo porterò in tournée. Lo penso come una corsa all’oro, una spedizione di pionieri verso la nuova frontiera. Nell’attesa, mi sono sottoposto a quella che chiamo una cura omeopatica». È il nuovo cd, «Un piccolo Natale in più», appena uscito. «Ho recuperato le canzoni di Natale che da bambino, alla fine degli Anni 50, ascoltavo alla grande radio che mi aveva regalato mio padre. Musica sacra, tradizionale, classica, pop. Oltre che in italiano, canto in inglese, portoghese, ceco, francese, spagnolo, basco, romeno, tedesco — «Stille Nacht» — e pure in latino. Siamo andati a cercare gli originali. E mi sono reso conto di essere malato di nostalgia del futuro. Al tempo della mia infanzia ogni speranza era certezza. I miei genitori arrivarono, anzi volarono a Roma da due paesini dell’Umbria — papà da Ficulle, mamma da Allerona — sicuri del proprio avvenire, anche se erano così poveri da non poter fare altri figli, oltre a me. Mia madre mi disse che i bambini bisognava comprarli al mercato, e costavano cari. Così ammucchiai un po’ di monete e gliele portai, "per comprare un fratellino". Mi rispose che nel frattempo erano rincarati».
Suo padre, com’è noto, era «un brigadiere che scrive poesie». «A 14 anni volevo farmi prete. Assicurai a mia madre che avevo sentito la vocazione, anzi la "voce". Poi arrivò il ’68. Partecipavo ai cortei, non agli scontri con i carabinieri: non avrei mai potuto, in quelle divise rivedevo mio padre. Le uniche botte le presi dai "barbuti" che vennero a Valle Giulia per sgomberare l’aula magna dove eravamo riuniti in assemblea: ci fecero uscire in fila per uno, mi arrivò uno schiaffone alla nuca, ma non osai girarmi e non ho mai saputo chi fosse stato. Con papà non avevamo le stesse idee. Io ero, e sono, di sinistra, anche se non estremista. Lui era monarchico, e litigava con zio Dino, il fratello di mia madre, socialista, che ogni Primo Maggio metteva la coccarda rossa. Lo zio faceva il contadino. Aprì un’osteria e morì di cirrosi in tre mesi, perché offriva da bere a tutti e con tutti beveva. È un altro frammento di quel mondo semplice e umano che mi manca molto».
«Ci siamo illusi che un leader potesse risolvere tutto al posto nostro. Ma non funziona così. L’uomo più ricco d’Italia non poteva fare il capo del governo. Anche se Berlusconi non mi è mai stato antipatico: in lui rivedo le vanità e gli esibizionismi dell’artista. Non a caso, quando mi telefonò per offrirmi aiuto per il festival "O Scià" a Lampedusa, esordì dicendo: "In fondo facciamo lo stesso mestiere". Gli risposi che io non ho mai fatto il presidente del Consiglio. Lui invece si sente davvero un uomo di spettacolo». A proposito, il festival lo farà ancora, adesso che le hanno messo la villa sotto sequestro? «Lo rifarò, con una formula diversa. E la villa, dove sono in affitto, è appena stata dissequestrata, il tribunale ci ha dato ragione». E Monti? «L’ho conosciuto, a cena da amici, c’erano anche Riccardi e Grilli. Ha un senso dell’umorismo straordinario. Sull’uomo di governo sospendo il giudizio». Bersani o Renzi? «Bersani è uomo di valore, ma Renzi rappresenta quella rivoluzione ragionevole di cui l’Italia ha bisogno. Così come c’è bisogno di Grillo. Sull’Europa e sull’euro dice sciocchezze; ma incarna il desiderio di un cambiamento che sento imminente».
Quest’anno a Sanremo c’è il suo amico Fabio Fazio. Andrà anche lei? «Con Fabio facemmo "Anima Mia": un successo straordinario. Mandammo in crisi "Paperissima", e Antonio Ricci me la giurò: da allora mi mette tra i rifatti, mentre non sono mai andato dal chirurgo estetico in vita mia. L’anno dopo ci proposero di fare Sanremo insieme, ma la reazione dei discografici fu tale che lasciai perdere. Fabio fece Sanremo più avanti, ma da solo. E anche stavolta è meglio che vada avanti lui. Al massimo farò un salto a trovarlo. Del resto sono andato al festival una sola volta in vita mia, a ritirare il premio per "Questo piccolo grande amore", che aveva vinto il concorso per la canzone del secolo. Suonai e cantai dal vivo, quando non lo faceva più nessuno. C’era Beppe Grillo, che mi tirò la volata: "I Duran Duran hanno cantato in playback, invece Baglioni con la sua pianola…"».
Con i colleghi i rapporti non sono sempre stati facili. «Da ragazzo avevo tre miti. Celentano, con cui poi ho fatto una trasmissione tv, "Svalutation". De André: ho imparato a suonare la chitarra sulle sue prime canzoni. E Battisti. Lo incontrai per la prima volta in America, nel 1974. Lucio era in California a incidere un disco. Il presidente della Rca brinda "all’italiano che è in testa alle classifiche", e lui alza il bicchiere: "Thank you!". E quello: "A dire il vero non intendevo Lucio, ma Claudio". In effetti ero in testa io, con "E tu". Battisti la prese malissimo, quella sera discutemmo dell’America e finimmo per litigare. Con Renato Zero invece siamo sempre stati amici, prima ancora che lui diventasse famoso. Io figlio di un carabiniere, lui di un poliziotto. Ammiravo il coraggio pazzesco con cui affrontava platee ostili, che lo coprivano di insulti. Andavamo insieme al cinema Farnese, pagava lui anche per me, con i soldi che guadagnava lavorando come modello». Lucio Dalla le manca? «Sì. Non dico che gli devo la vita, ma quasi… Venezia, 1969. Esordisco alla "Gondola d’argento", insieme con Ron. Canto "Notte di Natale" tra grandi applausi. Ma la giuria è composta da marinai, che mi classificano ultimo. Ron, penultimo. Giro per una Venezia di inizio autunno, particolarmente malinconica, e medito sull’effetto che farebbe la fine di un giovane cantautore che si lascia scivolare in un canale… Quando incontro Dalla, che ha capito tutto, comincia uno show di vocalizzi alla sua maniera, ci fa sorridere, mi cambia l’umore. Lucio era un uomo generoso di sé».