Dario Cresto-Dina, la Repubblica 30/11/2012, 30 novembre 2012
TORINO
«Nonna, come si fa a fare l’amore?». «O Signore benedetto», balbetta la povera donna, sbalordita. «Ma cosa... chi ti ha detto... ». «È Lina. Dice che per comperare un bambino, un uomo e una donna fanno l’amore. Ma lei non sa come si fa».
«Non lo sa perché non sono cose da bambini. Ogni cosa a suo tempo. La storia dei bambini, per filo e per segno, la capirai quando ti sposi ».
Il dialogo riemerge da un mondo scomparso. È tratto da
La venturina,
romanzo appena pubblicato da Baldini&Castoldi. La venturina è Gemma, figlia di N. N., bambina
bastarda
uscita dall’ospedale, così veniva chiamato il brefotrofio in modo da raschiare dal nome il marchio della vergogna che il luogo portava con sé. Lo ha scritto Maria Tarditi, ex maestra elementare ottantaquattrenne affetta dal morbo di Parkinson. La malattia le è stata diagnosticata nel Duemila, lei aveva appena cominciato a scrivere,
La venturina
è il suo tredicesimo libro, e rappresenta l’apice di un piccolo caso editoriale nato nel basso Piemonte che adesso attira le attenzioni del mercato europeo, primo avamposto l’Olanda. Nel piccolo alloggio di un condominio di Grugliasco, sistemata sulla sedia a rotelle, una felpa bianca con un dubbioso
My heart is...
stampigliato sul petto, sotto lo sguardo vigile della figlia Maria Pia e della badante, smette di tormentare l’orlo della tovaglia e dice: «Mi sgridano perché non sono più capace di fare nulla. Ho perso tutto, tranne i ricordi. Quando ho cominciato non sapevo che cosa volessi. Mi sono procurata un blocco di quaderni Pigna a fogli protocollo e mi sono messa a scrivere. Tutto in stampatello. L’aliot).
vevo fatto l’ultima volta in quinta elementare, un tema per un concorso che ci chiedeva di raccontare il più grande desiderio della nostra vita. Io volevo andare a Roma a vedere il Duce». Le sue storie attraversano le campagne di Monesiglio, in val Bormida, durante gli anni a cavallo della seconda guerra mondiale. Raccontano di gente semplice e povera, di un tempo umile, silenzioso, feroce ma pieno di dignità, un tempo che non conosceva il nome delle cose e non osava pronunciare neppure quello dei sentimenti. Dove si mangiava la minestra con il pane e dove ogni
respiro era una fatica e l’amore, soprattutto l’amore, era nascosto come lo erano le gambe delle donne coperte dalle calze anche nel pieno dell’estate.
Maria, come facevano all’amore i contadini negli anni Trenta?
«Se erano per bene in silenzio, al buio e in fretta. Dormivo nella stanza accanto a quella dei miei genitori, avevamo perfino una porta in comune. Non li ho mai sentiti agitarsi, gemere o sospirare. Né ne parlavano mai, i loro gesti d’affetto si limitavano ad accompagnare la vestizione: un tocco al collo del cappotto di lei,
una sistemata alla cupola del cappello di lui. La nudità non esisteva, se una ragazza mostrava una spalla, a meno che non stesse facendo il fieno, diventava subito una svergognata, di lì a sgualdrina il passo era breve. Mi sono sposata a ventun anni senza sapere com’era fatto un uomo. Il solo essere umano che avevo visto nudo era stato un cuginetto neonato, in culla. Mi era sembrato un arrosto».
Un arrosto? Più che quello del sesso, cercavate il piacere del cibo.
«Il mangiare e il caldo di una
stufa erano le sole gioie dei poveri. La grande guerra ci aveva castigati. I più fortunati venivano sfamati dalla campagna, ma la terra d’alta Langa era dura da lavorare e rendeva poco. I
particolari,
quelli che avevano cascina e campi di proprietà, erano quattro, gli altri tutta
ratatuia,
degli avanzi. Noi avevamo galline, conigli e una mucca, non il maiale perché delle due l’una: o mangiava lui o mangiavamo noi. Si tirava avanti a polenta, merluzzo, la sera minestrone o latte».
Sapeva di essere povera?
«Non me ne sono mai accorta, si poteva trovare una felicità anche
nell’essere poveri. Ci si aiutava fra parenti, era lo stato sociale delle campagne. Quando papà riuscì a farsi assumere come cuoco a Genova, poi a Cuneo e a Limone Piemonte il destino della famiglia migliorò. Smettemmo di patire la fame».
Qual è il suo ricordo più luminoso legato al cibo?
«La prima banana vera, al mercato coperto di Savona. Avevo sei anni, prima l’avevo vista solamente nei libri. Aveva il gusto del paradiso».
Nei suoi romanzi c’è la traccia di un fascismo fideistico e inge-
nuo, vissuto da una distanza non solo fisica. Come entrava, se entrava, la politica in casa?
«Da ignoranti. Il nonno, che era stato diciott’anni in seminario a Mondovì e in famiglia spesso si lanciava nelle prediche in latino, era terribilmente fascista; mio padre era invece terribilmente antifascista. Ma non se ne parlava mai. Io adoravo Mussolini, da ragazzina. Agli ignoranti il Duce piaceva, lo sentivano come uno di loro. L’è an brau’om, si diceva, è un brav’uomo. E ci bastava,
allora».
Che cosa vi ha aperto gli occhi?
«La Liberazione e la lotta partigiana. A me i corpi di undici partigiani impiccati dai repubblichini ai ferri del ponte sulla Bormida».
La guerra cambiò anche i costumi?
«Certo, impresse alla vita un altro ritmo, tutto cominciò ad andare più veloce. Conservo un’immagine che contiene assieme alla mia meraviglia quella che credo appartenesse al paese intero. Frequentavo l’ultimo anno delle magistrali a Genova, quando gli alleati entrarono in città. Americani, inglesi, neozelandesi sfilarono sulla passeggiata di Pegli dove ci aveva accompagnate la signorina Cordero. La propaganda fascista ci aveva avvertito: sono selvaggi, chiudetevi in casa! Erano bellissimi invece sui loro carrarmati, con le sciarpe e quelle scarpe di cuoio lucido che tanto invidiammo, noi abituati alle suole di legno d’ontano o ricavate dalle
vecchie valigie. Ci innamorammo tutte di quei ragazzi soldati».
Anche lei?
«Oh, io ero sempre innamorata, mai ricambiata. Ben vestita, ma non bella. Ero timida e stupida, un po’ fredda, credo che apparissi antipatica. Il mio ardore bruciava soltanto nelle lettere».
Chi fu il primo destinatario dei suoi epistolari d’amore?
«Un maestro, un collega. Cominciai a insegnare nel 1946 a Realdo di Briga Marittima, in una pluriclasse. I realdesi volevano passare alla Francia, scrivevano ogni sera al generale De Gaulle. Conobbi Nino e mi venne uno
sciupùn
al cuore. Due anni di lettere e baci sulle guance. Poi mi spostai a Saliceto, Pievetta, Prunetto, Mombarcaro. La storia finì».
Il secondo uomo della sua vita divenne suo marito. Come lo incontrò?
«Era un mio studente alla scuola serale di Pievetta. Si chiamava Oreste Peirano, commerciante di legname, carbone di legna e patate della Val Tanaro. Aveva quindici anni più di me, gli mancava la quinta elementare, dimostrò grande applicazione nei compiti a casa. Mi piacquero
la sua serietà e i suoi abiti da signore. All’inizio lo ammiravo, più che esserne innamorata. L’anno si concluse con una piccola festa, andammo al cinema di Garessio, davano
L’onorevole Angelina,
con Anna Magnani e Ave Ninchi. C’erano sei chilometri di strada da percorrere in bicicletta. Me n’ero fatta prestare una da uomo con il freno a contropedale. Al ritorno facemmo una breve sosta e Oreste mi chiese di sposarlo. Aveva la tremarella. Non aspettavo altro. La domenica successiva si presentò dai miei genitori a Monesiglio per ottenere la mia mano. Portò
in dono un cesto di castagne. Il matrimonio si celebrò il 20 agosto 1949».
Lei arrivò vergine alle nozze?
«Assolutamente sì. Le ragazze a modo non facevano l’amore se non dopo essersi sposate. Ci spiegavano che così saremmo state al riparo dalle sofferenze e dal rischio, facilissimo, di rimanere incinte. Arrivai alla prima notte con mio marito senza conoscere nulla del sesso, mentre lui aveva avuto un mucchio di morose. Il piacere era una prerogativa dei maschi. Si arrangiavano ».
Quali sono stati, allora, i piaceri che ricorda della sua adolescenza e giovinezza?
«Il calore famigliare, le confidenze di mia sorella Rita di due anni più grande e purtroppo morta prematuramente nel ’45, lo zio paralitico
Balosse
nel quale l’umorismo dominava la disgrazia e le letture più disparate. Il primo a entrare in casa fu il libro delle fiabe di Charles Perrault, prestito gentile di Vittorina Galliano, donna che non ho mai dimenticato, poi Liala, Salgari,
Cuore
di De Amicis, ma anche i fumetti dell’Intrepido e Dostoievski e Tolstoj, fino a Fenoglio
e Pavese».
È chinandosi su di loro che ha imparato a scrivere?
«Vede, non so se sono capace di scrivere. Quello che so fare bene è raccontare. Nei temi prendevo sempre nove e la professoressa Gribaudo mi diceva: “Sai Maria, lascio il tuo per ultimo così mi rifaccio il gusto”. Eppoi so ricordare, rivedo nitidamente un passato che non vorrei si smarrisse, anche se mi fa venire il magone».
È la malinconia della sapienza, un dono che appartiene ai vecchi.
«Sbaglia, dei vecchi non importa niente a nessuno. Nemmeno i luoghi ci riconoscono più. Non torno a Monesiglio da anni. Sa qual è il solo vantaggio della mia memoria antica? Posso scrivere ciò che mi pare, chi vuole che mi contraddica ormai? Se ne sono andati quasi tutti».
(d.crestodina@repubblica.it)