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 2012  novembre 30 Venerdì calendario

"Quel che fanno le Brigate Rosse penso vada bene, anche se è sbagliato andare in giro ad ammazzare la gente - sai, uccidono uomini d’affari e quelli che secondo loro stanno fottendo l’Italia - ma voglio dire il sistema è comunque brutale, tante gente muore a causa del sistema, e nessuno ha niente da dire"

"Quel che fanno le Brigate Rosse penso vada bene, anche se è sbagliato andare in giro ad ammazzare la gente - sai, uccidono uomini d’affari e quelli che secondo loro stanno fottendo l’Italia - ma voglio dire il sistema è comunque brutale, tante gente muore a causa del sistema, e nessuno ha niente da dire". Joe Strummer non si tirava indietro quando c’era da parlare di politica. Lo faceva alla sua maniera: generosa, naif, torrenziale. Nel 1978 spiegava così la decisione di indossare una t-shirt col simbolo delle Brigate Rosse il giorno del grande concerto di Rock against Racism a Londra. Non è difficile trovare ancora qualcuna di quelle t-shirt in vendita online - "vintage cotton" "as popularized by Joe Strummer" -. Più difficile indovinare chi ebbe l’idea di fare una maglietta del genere. Mettendo oltretutto il logo dei terroristi tedeschi della Raf (con le lettere a comporre un mitra) dentro la stella a cinque punte. E’ certo che Vivienne Westwood in quegli stessi anni aveva decorato di stelle e falci e martello gli stracci dei Sex Pistols. E il manager dei Clash Bernie Rhodes, commissario politico della band, veniva dal giro dell’estrema sinistra inglese, trotskista e un po’ fuori dal tempo. E’ certo che la leggenda della t-shirt delle Br accompagnò per anni Joe Strummer. Molti appassionati ricordi di chi andò a Bologna al primo concerto italiano dei Clash, il 1 giugno 1980 in piazza Maggiore, la ricordano bene. O almeno così credono. Chi dice che Strummer la indossò, chi è certo di sapere che fu dissuaso dal metterla prima di salire sul palco. Dicono che una stella a cinque punte ce l’aveva, ma incollata alla chitarra. Eppure nessuno di quelli che stavano sul palco ricorda nulla del genere. Walter Vitali, ventottenne assessore comunista ai giovani che aveva organizzato il concerto, avrebbe dovuto nel caso accorgersene e prendere provvedimenti. Vitali, a proposito, aveva la stessa età di Joe Strummer. Non era punk, tutt’altro. Iniziò alle 22.45, in grande ritardo. Alle dieci era venuto giù un acquazzone. I Clash venivano da Nizza, dove avevano suonato la sera prima. Il batterista Topper Headon comparve con ancor più ritardo. Fu il collega dei Whirlwind, uno dei gruppi spalla, ad accompagnare i primi pezzi. Tra sputi, pogo e urla, la festa fu comunque soddisfacente. Mick Jones collassò appena sceso dal palco. Topper Headon si perse di nuovo, nessuno sa dove. Rispuntò due giorni dopo al concerto di Torino. Paul Simonon partì per Venezia con la fidanzata. Joe Strummer girò per Bologna tutta la notte, poi tornò in albergo. Nelle fotografie, indossa qualcosa che assomiglia a una camicia gialla. Niente maglietta. I Clash, raccontava Lester Bangs nel 1977, "invitano regolarmente i fan a seguirli in hotel dopo il concerto, e a volte fanno dormire qualcuno sul pavimento delle loro stanze. Non so quanto tempo abbiate passato con le grandi band di rock’n’roll (...) ma lasciatemi dire che la maniera in cui i trattano i loro fan esce dall’ordinario per entrare nel rivoluzionario". Non abbiamo notizie di ragazzi in hotel a Bologna. Massimo Buda, giornalista e rocker incorruttibile che aveva avuto il merito di suggerire all’assessore Vitali e al suo collaboratore Mauro Felicori, di chiamare i Clash, ricorda però che Strummer gli disse di aver girato la città la notte dopo il concerto, parlato con un sacco di gente e, arrivato sotto le due torri, di aver notato la scritta: "Sid Vicious live, punk’s not dead". Buda incontrò Strummer in hotel, il pomeriggio del giorno dopo. La conversazione fu pubblicata dal quotidiano Lotta Continua, su due pagine. Si parlò della maglietta. Ancora. Spiegò finalmente Strummer di averla indossata al concerto di Rock against Racism per pura provocazione: "Avevamo capito che c’era del marcio, gelosie politiche, strumentalizzazione della Emi". Poi si face più serio: "Pensavo che Br, Raf, l’Ira, rappresentassero un modo che pure non condivido, di ribellarsi. Ma oggi non credo più a una cosa simile (...) So che da voi qualche giorno fa hanno ucciso un giornalista comunista, e questo è davvero un maledetto modo di vivere". E’ qui che una nota in corsivo del giornale deve spiegare, non senza un po’ di imbarazzo, che "così evidentemente è giunta alle orecchie di Strummer la notizia dell’uccisione di Walter Tobagi". Il giornalista del Corriere della Sera, cronista degli anni di piombo, era stato ucciso dalle Brigate Rosse tre giorni prima del concerto. Tobagi era iscritto al Partito Socialista Italiano, era cattolico praticante, mai e poi mai si sarebbe definito comunista. C’è un comprensibile difetto di traduzione nel considerare "socialista", come in Inghilterra, tutto ciò che stava a sinistra del labour. Vero pure che il confronto tra il mito italiano, diffuso in tutto Europa, e la realtà di quella tumultuosa fine d’epoca non aiutò Strummer a capire le cose meglio di così. Ma non è neppure questo il punto. Il concerto dei Clash a Bologna fu complicato ancor più del dovuto dalla contestazione dei Raf Punk, una band anarcopunk bolognese nata sulla scia dei Crass. Crass not Clash. Un loro volantino fotocopiato, distribuito in piazza, cominciava così: "Il sistema continua a darci merda da mangiare-respirare-ascoltare così come ci passa questi fottutamente inoffensivi Clash e cerca di convincerci che il punk è morto". Sì, i Clash avevano firmato per la Cbs quasi tre anni prima. Ma qui il "sistema" era soprattutto l’amministrazione di Bologna. Di lì a breve si sarebbero tenute le elezioni regionali e il Pci, come abbiamo visto, aveva scelto i Clash per rifarsi la faccia, quasi per tendere una mano ai ragazzi e agli studenti avevano messo a ferro e fuoco la città negli scontri del marzo ’77, e si aggiravano ancora come fantasmi nelle antiche strade. All’epoca la "vetrina" bolognese del buon governo di sinistra era ancora ampiamente infranta. La "città a misura d’uomo" una noia mortale: anni di Dams e eroina. A poco era valsa la faccia dura dei leader del Pci, Berlinguer in testa, che nel 1977 avevano definito gli studenti "untorelli" e fascisti. La storia andò avanti per conto suo. Walter Vitali, vicesegretario della Fgci di D’Alema, venne rispedito a Bologna dopo aver visto in azione a Roma l’effimero di Renato Nicolini, e quella era un’altra storia. I Clash suonarono alla fine di una rassegna musicale intitolata Ritmicittà, aperta - come si diceva allora - ai nuovi fermenti giovanili. Erano "i più distanti, i più critici" - giustifica oggi quella scelta l’oggi senatore del Pd. Il suo collaboratore di allora Mauro Felicori aggiunge: "I Raf Punk avevano ragione: noi non avevamo la credibilità per fare quel concerto". Poi si corregge: "Non l’avevamo ancora". Dunque, nell’intervista a Lotta Continua, Joe Strummer racconta di aver parlato, quella notte, coi ragazzi dei Raf Punk. "Dicevano che eravamo dei bastardi ad aver suonato a un concerto organizzato dai comunisti". E aggiungeva: "Io so una cosa, quello che è successo ieri sera è stato bellissimo, in Inghilterra ci arresterebbero se suonassimo a un concerto del partito comunista". Qui il suo ragionamento si faceva addirittura vertiginoso: "Bologna non è come Londra. Da noi 1984 è già una realtà (...) Per questo io dico che cosa può fare un povero ragazzo nella sonnolenta Londra se non suonare il rock’n’roll?" La citazione finale dei Rolling Stones è un po’ salvarsi in corner. Ma Orwell, no. A dire il vero, i fumettisti di Cannibale, Andrea Pazienza prima di tutti, erano molto più avanti: usavano raccontare la Bologna di allora come una specie di luogo orwelliano, dove l’organizzazione e il buon governo precipitavano in una grottesca distopia. La "metropoli", non la città, figuriamoci la cittadina, era l’orizzonte mentale in quegli anni delle culture radicali e post-punk. Cannibale, i Raf Punk, l’effimero nicoliniano, furono il nostro punk e il nostro post-punk. Sull’Unità di martedì 3 giugno, il ventiseienne Michele Serra dedicò un lungo corsivo al concerto e alle tensioni che aveva rivelato. Dei Clash parlò male, per vezzo: "Ritualità scontata e nevrotica", "violenza da depliant alternativo". E poi: "Una situazione che non prevede nessuna variante al copione, che riconduce ogni svolo, ogni ragionamento, all’intero delle sorde budella dell’utero metropolitano..." La prosa è eccessiva, ma il ragionamento va seguito. Di che metropoli parlate, si chiedeva Serra? "C’è anche il cielo, ci sono gli alberi (...) c’è Bologna con i suoi muri rossi e le strade intelligenti (...) c’è piazza Maggiore con i suoi crocchi di anziani che parlano di Carter e Reagan". Ecco. I crocchi di anziani erano la cosa che i ragazzi di Bologna odiavano di più in quel momento. Ho riletto il pezzo di Serra a Walter Vitali. Ha osservato ridendo: "Serra come al solito non aveva capito nulla". Il paradosso finale è che Strummer, con la stessa generosità che negli anni lo avrebbe portato a fare il sandinista e l’internazionalista, era più d’accordo con Serra, ma questo è davvero un paradosso. Alla fine degli anni ’70, per un inglese di sinistra l’Italia era un luogo poco meno che mitico, una specie di Messico assolato dove tra radio libere, scontri con la polizia, terrorismo, grandi città governate dal Partito Comunista, la rivoluzione sembrava lì a un passo. Molto meno che mitico, per chi ci abitava. Il 1984, quello vero, ci scoprì attaccati alla televisione. La metropoli quasi continuiamo a sognarla ancora adesso. La mitologia del Partito Comunista "più grande d’occidente" si è cancellata in fretta. La riscrittura della storia è stata a tal punto orwelliana che a ricordarla oggi ci si sente più o meno come Joe Strummer, sbarcato da Nizza a Bologna un giorno di giugno di 32 anni fa con una chitarra elettrica, forse una maglietta delle Brigate Rosse in valigia, e sbattuto su un palco a suonare: "Voglio portare la città dai rockers di Clash City/ avete bisogno di una scossetta da quelli dell’elettroshock". Ecco, così.