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 2012  novembre 29 Giovedì calendario

IL FISCO CHIEDE IL CONTO A GOOGLE

Google, ma non solo. Il pressing dell’amministrazione finanziaria coinvolge quasi tutti i big di internet e del settore informatico. Dopo la verifica avviata lunedì scorso nei confronti di Google Italy srl (e resa nota ieri dal sottosegretario all’Economia, Vieri Ceriani, nel corso di un’interrogazione parlamentare), i controlli della Guardia di Finanza potrebbero riguardare a breve anche altre multinazionali della new economy, da Apple ad Amazon.
La stessa agenzia delle Entrate, come ha precisato Ceriani, «per contrastare efficacemente fenomeni di pianificazione fiscale aggressiva aventi scala transnazionale, sta procedendo, in base a un primo screening delle risultanze dell’attività di tutoraggio dei grandi contribuenti, a una selezione di posizioni che possano dar luogo a una mirata attività di controllo fiscale nei confronti dei gruppi multinazionali attivi nel settore dell’elettronica e dell’e-commerce e le cui strategie fiscali sono oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica italiana e internazionale».
La società di Mountain View, attraverso un proprio portavoce, ieri ha precisato che «Google rispetta le leggi fiscali in tutti i Paesi in cui opera e siamo fiduciosi di rispettare anche la legge italiana. Continueremo a collaborare con le autorità locali per rispondere alle loro domande relative a Google Italy e ai nostri servizi».
Il Fisco italiano – ma analoghe iniziative sono in atto anche in tutta Europa (si veda l’articolo a fianco) – punta però a riqualificare il modello di business di quelle multinazionali del web che hanno la sede principale all’estero (spesso in paesi a fiscalità privilegiata) e operano con proprie diramazioni nella Penisola, concentrando di fatto i propri ricavi (e la base imponibile su cui pagano le imposte) oltreconfine.
Queste modalità organizzative non sarebbero del tutto corrette, secondo la GdF, in quanto l’articolazione italiana di Google (ma lo stesso vale per le altre società che saranno interessate dai controlli) costituirebbe una "stabile organizzazione": di conseguenza la quota di fatturato su cui pagare le imposte nella Penisola andrebbe notevolmente accresciuta.
Le contestazioni – che toccano anche profili legati al transfer pricing – potrebbero ammontare a centinaia di milioni di euro. Anche se, nel caso in cui fosse sancita la validità della ricostruzione dell’amministrazione finanziaria, le multinazionali informatiche (la maggior parte sono assisite da Baker & McKenzie) potrebbero porre il problema di vedersi riconosciuti – in proporzione – una serie di costi produttivi oggi ascrivibili alla casa madre, in modo da abbassare comunque i ricavi imponibili in Italia.
Già nel maggio del 2007, su delega della Procura di Milano, la Guardia di Finanza ha svolto un’indagine su Google (poi archiviata per i profili penali). I nuovi controlli delle Fiamme Gialle dovrebbero seguire la stessa falsariga. Allora sotto la lente finirono i contratti tra Google Inc. (e successivamente Google Ireland Ltd) con Google Italy srl. La Guarda di Finanza, applicando le regole previste dalle convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate tra Italia e Usa/Irlanda e quelle della convenzione Ocse, aveva appurato cinque anni fa l’esistenza in Italia di uffici («installazione materiale») attraverso cui Google Inc. e Google Ireland hanno svolto in «maniera strumentale e non ausiliaria la propria attività». Uffici che peraltro risultavano essere nella disponibilità continuativa di Google e dunque «tali da integrare il requisito della fissità dell’attività nel territorio nazionale». Questa organizzazione, viste anche le qualifiche e le mansioni del personale impiegato in Italia, era idonea alla produzione dell’intero reddito sviluppato in Italia attraverso la stipula di contratti con i clienti italiani. I ricavi maturati in Italia, perciò, secondo la GdF, andavano tassati in Italia. Un obbligo che sarebbe stato eluso attraverso un contratto di servizi (denominato "Marketing and Services Agreement") siglato tra le Google Inc. e Google Ireland e Google Italy in cui si profilava da parte della struttura italiana una mera attività ausiliaria e preparatoria che «non trovava alcun riscontro negli elementi di fatto acquisiti». Da quella ispezione è emerso, come riferito ancora da Ceriani, che fra il 2002 e il 2006 la società italiana di Google non avrebbe dichiarato redditi per 240 milioni e non avrebbe versato oltre 96 milioni di Iva. I risvolti tributari di quelle verifiche sono tuttora al vaglio delle Entrate.
Tra i big del settore ci sarebbe però anche chi ha giocato d’anticipo. Microsoft avrebbe, in effetti, chiuso nei mesi scorsi con l’agenzia delle Entrate una procedura di ruling internazionale per la determinazione dei prezzi di trasferimento infragruppo, in maniera da tenersi al riparo da sgradite sorprese.