Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 29/11/2012, 29 novembre 2012
SE IL MERCATO NON CREDE AI MIRACOLI
«Una storia italiana dal 1472»: la pubblicità è a volte ingannevole, gioca spesso sugli equivoci e sui doppi sensi, ma nel caso del Monte dei Paschi la pubblicità del gruppo senese meriterebbe il premio alla trasparenza. Quella del Monte è infatti la più italiana delle storie da raccontare, e non solo per le sue origini rinascimentali: è una storia italianissima per il legame tra la banca e territorio, per il legame tra finanza e politica, per il ruolo e il condizionamento esercitato da authority e sindacati nelle scelte gestionali. Detto questo, quella del Monte dei Paschi di Siena rischia di essere una storia ancora più italiana nel suo epilogo. La crisi della banca è palese, quella del suo azionista anche, e lo è persino quella della città: davanti alla prospettiva di un azzeramento dei dividendi pagati dalla banca alla Fondazione e poi dei contributi versati dallo stesso Ente al Comune, Moody’s ha tagliato il rating di Siena a Baa3, il livello più basso nella sua storia. A meno di miracoli, il futuro del Monte rischia di essere già scritto: finire in mani straniere se non interviene lo Stato o si studiano le operazioni di "sistema". Il paradosso è che il Monte, oggi, potrebbe essere una banca in una situazione del tutto diversa se i veti incrociati della politica, dei sindacati e della Banca d’Italia targata Antonio Fazio non avessero bloccato operazioni di mercato che nel 2005-2007 avrebbero permesso all’istituto senese non solo un salto di qualità dimensionale, ma anche di non commettere gravi errori che hanno compromesso il suo futuro: l’acquisto di AntonVeneta, a cui oggi si fanno risalire gran parte dei problemi della banca, avvenne infatti dopo che alla Fondazione che era allora guidata da Giuseppe Mussari fu impedito di fondere la banca con la Bnl, che fu poi acquistata da Bnp. Pochi lo sanno, ma bloccando la fusione Mps-Bnl per favorire la scalata mancata di Unipol alla stessa Bnl, l’intreccio tra politica e finanza di quegli anni impedì anche una seconda operazione: la fusione tra il Monte e il Bbva, il Banco di Bilbao che era allora grande azionista di Bnl. Il piano che era stato messo a punto allora dalla Fondazione, infatti, prevedeva che dopo la fusione con Bnl, l’ente senese avrebbe controllato il 33% del gruppo risultante, con il Bilbao al 18%. Fatto questo, senesi e spagnoli avrebbero poi fatto una vera fusione dei due gruppi, con la Fondazione Mps primo azionista con il 10% di Mps-Bnl-Bilbao e con Telefonica di Spagna secondo azionista con il 2%. Ebbene, questo progetto che avrebbe dato a Siena solidità e dimensioni continentali, naufragò solo perche la politica senese, Fazio e il vertice romano dei Ds preferirono lanciare la scalata di Unipol a Bnl. E fu così che Mussari fece l’errore di acquistare Antonveneta. Ma questa è ormai storia. Oggi, dopo la richiesta di nuovi prestiti del Tesoro, sono in pochi a credere, tanto a Siena quanto a Roma, che il Monte dei Paschi possa continuare a camminare da solo come avviene dal 1472: oggi, a meno di un improvviso e forte recupero di slancio dell’economia italiana di qui a un anno, di una conseguente rivalutazione dei BTp (il Monte ne ha comprati per 30 miliardi), e quindi di una felice implementazione del piano industriale varato dal nuovo management, la Fondazione che controlla l’antica banca senese potrebbe essere costretta a cedere il passo e la gestione a un nuovo azionista di maggioranza. Visto lo scarso appetito degli investitori per gli aumenti di capitale, operazione che la banca ha annunciato e che dovrebbe fare nel 2013, l’ipotesi che gli analisti e il mercato ritengono oggi più probabile è che lo Stato potrebbe essere costretto a convertire in azioni i 3,9 miliardi di euro di Tremonti-bond di cui il consiglio della banca ha fatto richiesta ieri. Senza un nuovo miracolo economico, infatti, il destino del Monte come banca indipendente appare sempre più incerto. Il mercato, questo, lo sa ormai bene. Il titolo del Monte continua ad avere il peggior andamento del settore a Piazza Affari, gli analisti ritengono che il 2012 si chiuderà con una brutta perdita netta e che nel 2013 si chiuderà poco più che in pareggio. Non solo: anche se tutto dovesse andare come prevede il piano industriale, comprese le dismissioni degli ultimi asset rimasti nel credito al consumo e nel leasing, il Monte difficilmente sarà in grado di avere una redditività superiore al 3-4% nel 2014-2015. Troppo poco per competere ed essere attraente per gli investitori. Sul Monte pesano non soltanto il crescente sbilancio del funding (raccolta scarsa e nettamente inferiore agli impieghi, tra l’altro di bassa qualità), una redditività scomparsa sotto il peso dei costi (ormai difficilmente comprimibili, visto che quasi tutto è ormai esternalizzato), lo sbilancio nel rapporto tra capitale liquido e titoli di Stato (circa 1 a 3, il più alto in Italia) o la difficile congiuntura che circonda il territorio e il Paese. Sul Monte pesa più di ogni altra cosa il senso di sfiducia che sta pervadendo il mercato (e la stessa comunità senese che ne condiziona l’esistenza) sulla possibilità che la banca si reinventi da sola, che sia in grado di risolvere il nodo degli esuberi e tagliare con l’accetta una rete di sportelli che la pone persino peggio dei suoi concorrenti. Se è in questo contesto che vanno individuati i possibili scenari, la banca e i suoi azionisti potrebbero essere costretti presto a fare scelte decisive. Come abbiamo già detto, non si può escludere a priori che l’Italia torni un Paese felice, che i BTp riducano drasticamente lo spread sui bund e che il Monte ne possa beneficiare per ripartire da zero. In questo caso, con un aumento di capitale già fatto e con quello che si dovrà fare l’anno prossimo, il Monte potrebbe addirittura trovarsi nella paradossale situazione di avere un eccesso di capitale. Ma i miracoli, in banca come nella vita, sono un’eccezione, non la regola. E di conseguenza restano gli scenari meno graditi. Il primo per logica vede un intervento di salvataggio da parte dello Stato: la conversione di 3,9 miliardi di prestiti in azioni di una banca che capitalizza oggi in Borsa circa 2 miliardi significa di fatto nazionalizzazione. Il Tesoro, come prevede il regolamento dei Tremonti Bond, sarebbe infatti costretto ad assumere il controllo della banca se questa non fosse in grado di restitutire i prestiti ricevuti con le obbligazioni di Stato. Una volta stabilizzata la situazione, e con un ciclo economico più favorevole dell’attuale, il Tesoro potrebbe poi riprivatizzare la banca e mettere persino in cassa una sostanziosa plusvalenza. Certo, il segnale che si darebbe ai mercati non sarebbe di certo favorevole per il sistema bancario italiano: finora si è detto infatti che le nostre banche sono tra le più solide d’Europa. Ma tant’è: a mali estremi, estremi rimedi. E poi nessun Governo, tecnico o politico, lascerebbe fallire una banca delle dimensioni del Monte. Un interesse potrebbe averlo Unicredit, ma sarebbe solo per ribilanciare i pesi all’interno del suo azionariato: una fusione Unicredit-Mps aumenterebbe infatti il peso delle fondazioni italiane sui soci tedeschi, ma di certo creerebbe notevoli problemi di integrazione e di costi della rete. Di questi tempi, il vero problema delle banche è quello di chiudere le filiali, non di averene di nuove. In alternativa a questo scenario ci sono gli stranieri: alcuni sostengono che al Monte potrebbero essere interessati i francesi, a cominciare da Bnp-Bnl. Ma l’ipotesi appare per ora poco credibile. E vista l’attenzione che il Ceo Fabio Gallia sta dedicando al recupero di redditività di Bnl-Bnp, è del tutto impensabile che un manager di talento internazionale come lui possa imbarcarsi in un’operazione «da storia italiana».