Gianluca Gasparini, SportWeek 24/11/2012, 24 novembre 2012
COSA DAREI PER DORMIRE A CASA MIA
[SEBASTIAN VETTEL]
I successi vanno e vengono. Da qualche anno a questa parte, per lui, pare che vengano e basta. Domani, in Brasile, Sebastian Vettel si gioca il Mondiale. Dovesse conquistarlo sarebbe il terzo consecutivo. Ma dietro i titoli, le vittorie, i salti sul podio, c’è un ragazzo di 25 anni che ha già lasciato un robusto segno sulla F.1. Cosmopolita, capace di parlare non solo di motori e alettoni, connesso al mondo che sta fuori dai circuiti, fatto anche di guerre e disoccupazione. Un ragazzo spesso sorridente, a volte riflessivo. In grado, ogni tanto, di abbassare la guardia e farsi conoscere meglio. Un dietro le quinte del "vivere alla Vettel". Con sorprese.
«È un vivere diverso da quel che si immagina», racconta. «Se hai sognato fin da piccolo di correre allora non esiste niente di più grande. Ma nessuno sa come sia veramente la vita che lo accompagna, non si ha la minima idea di cosa ti tocchi. Sei in viaggio tutto il tempo, il lavoro ti prende 24 ore al giorno per sette giorni alla settimana, hai poco tempo per te stesso, ancora meno per i tuoi amici e la tua famiglia. Non fraintendetemi: non mi lamento, adoro la vita che faccio e dovessi scegliere da capo vorrei che fosse ancora questa. Non ho mai trovato niente che mi regalasse anche lontanamente lo stesso livello di divertimento. Ma non posso nascondere che si porta dietro un po’ di peso e da fuori non è facile rendersene conto. Non è tutto oro quel che luccica...».
Cos’è che la gente non conosce?
«Ti vedono nell’abitacolo della tua monoposto, ti seguono mentre corri, e se a fine giornata è andata bene festeggiano ed esultano per te. Ma non sempre sanno cosa serve per arrivare e rimanere a questo livello: la disciplina, l’allenamento quotidiano e la fatica, il tenere sotto controllo le tentazioni interiori, il combattere contro i cambi di umore o le incazzature. Queste sono le sfide fisiche che da fuori non si colgono. Ma poi c’è anche tutta una parte intellettiva, diciamo così: nei meeting con gli ingegneri ti viene richiesto di essere al loro stesso livello di discussione, di capire cosa succede tecnicamente in un ambiente che sembra quasi un laboratorio scientifico. Tutti questi aspetti i tifosi non li valutano perché non li possono vedere. Quando accendi la tv per le qualifiche puoi pensare che non ci sia poi tanto da fare, bastano un po’ di giri tirati e amen. Ma per arrivare là davanti serve una maratona ininterrotta che dura almeno dieci mesi all’anno».
Lei è stato a lungo il "cocco" della stampa: giovane, sorridente, vincente. Ma quest’anno in certi casi la luna di miele è finita.
«Credo nel proverbio secondo cui non sei mai così buono come sostengono gli altri, ma nemmeno così cattivo. Non arrivo a dire che dovresti ignorare ciò che dicono o scrivono di te ma almeno non dovresti esserne influenzato. Il mio parametro è il seguente: dovresti essere in grado di guardarti allo specchio e restare soddisfatto di ciò che vedi. Io amo l’onestà e la sincerità personale. Quanto sarebbe facile dire che sono uscito di pista perché si è svitata una ruota per colpa del box? Ma gli errori capitano, tu devi passarci stando bene in piedi e chiedere scusa quando li commetti tu. A Spa due anni fa provai a passare Button, persi il controllo della macchina e rovinai la gara di entrambi. Fu naturale andare a chiedergli scusa. Mi aspetto lo stesso dagli altri. È una questione di rispetto».
In certi GP, non finiti come voleva, non ha nascosto il suo nervosismo alla radio con il team. Come si gestiscono i momenti neri?
«Non c’è niente di male a essere poco felici, per usare un eufemismo, se hai una cattiva gara, non va come vorresti o capisci che avresti potuto fare meglio. L’importante è che finisca tutto con la bandiera a scacchi. A volte sei molto arrabbiato con te stesso ma non puoi schiacciare il tasto rewind e tornare indietro: devi accettarlo e guardare avanti, concentrarti su ciò che puoi cambiare per il futuro e non sprecare energie sul passato».
Ormai ha vissuto anni impacchettando e disfando valigie. Come si sente quando è a casa sua?
«Beh, alle borse con cui giri il mondo diventi molto affezionato... Con il tempo, comunque, preparare una valigia diventa routine. Anche se non riesci a evitare del tutto lo sbaglio di metterci troppe cose, che alla fine non ti servono. Succede a tutti, penso che sia nel Dna del viaggiatore... In generale credo che chi lavora in F.1 sia un po’ l’opposto del viaggiatore che va in vacanza. I turisti non vedono l’ora di salire su un aereo, dormire in un hotel, far colazione al buffet al mattino; noi siamo contentissimi quando passiamo una notte ogni tanto nel nostro letto e frughiamo senza un perché nella nostra cucina».
Cosa non dimentica mai di portare con sé in viaggio?
«Lo spazzolino da denti. E le calze bianche che ti fanno identificare immediatamente come tedesco...» (ride).
Se avesse un mese tutto per sé, cosa farebbe?
«Di sicuro non salterei su un aereo! Passerei un po’ di tempo con i miei amici e la mia famiglia e, per il resto, mi regalerei qualche bel giro a piedi, del trekking, o in bicicletta. Sceglierei una meta e via di cross-country».
La F.1 è un mondo piuttosto glamour. Lei segue molto la moda?
«Non posso dire di tenerla in cima alla mia agenda, ma di sicuro quando esco di casa mi do un’occhiata allo specchio, dunque non sono proprio privo di vanità... Una cosa mi è molto chiara, però: i vestiti che indosso devono essere comodi. Una T-shirt, una camicia larga sopra, roba così. E sulle tinte credo di avere un bel fegato: mi piacciono le cose molto colorate. Adoro i jeans, ormai fanno parte della nostra cultura di tutti i giorni. Era molto diverso ai tempi di James Dean o Marlon Brando: non erano la norma ma l’eccezione, era un vestire da ribelli. Ora vanno bene per ogni occasione. Almeno nel mio caso: sono ancora sotto l’età in cui diventi troppo vecchio per i jeans a ogni costo. Qual è? Dopo i 30 anni "per ogni occasione" non vale più...».
Qual è il capo di abbigliamento più strano che ha comprato?
«Mai fatto acquisti estremi, non sono il tipo. Ho sempre puntato a vestiti che avrei sicuramente indossato. Anche se non è proprio esatto dire così; una volta, da adolescente, mi son comprato un vecchio cappello classico. Non l’ho mai messo...».
Cosa rende il mondo della F.1 tanto affascinante?
«I GP e il glamour vanno mano nella mano ma per me ovviamente lo sport rappresenta la priorità. Sono più attratto dagli aspetti tecnici che dalle ragazze presenti sulla griglia di fianco alla mia Red Bull. L’occhio lo butto, lo stesso, ma non è il clou del mio weekend di gara».
Chi ritiene cool? Brad Pitt, Barack Obama, Homer Simpson?
«Chi vive a modo suo. Se segui sempre le orme degli altri non lasci mai un segno. Per giudicare Brad Pitt, ad esempio, dovrei averlo conosciuto, cosa che non è successa. Le persone che ammiro sono quelle con i piedi per terra che non fanno caso alle chiacchiere. Kimi Raikkonen, per esempio. Lui ti può piacere o no, ma vive proprio come desidera. Ha dei valori suoi, che segue con coerenza, e non cerca di piacere a tutti, non ha la minima volontà di essere ruffiano».
Raikkonen è la cosa più vicina a un amico che vanta tra i suoi colleghi?
«Sì. È diretto e onesto e ti dice chiaro se ha una giornata storta. Punto. È uno vero, per niente politico. E non ha mai secondi fini. Se non ha voglia di parlarti non te lo nasconde, parla chiaro e non con mezze parole e piccole scuse. Non gira intorno alle cose senza arrivare al punto, non è il tipo».
Sta lottando ancora con Alonso, come nel 2010. Che opinione ha, sinceramente, di Fernando?
«Lo rispetto molto come pilota, è uno dei migliori che abbiamo in F.l. Se lo giudichi in base alla velocità, alla consistenza, all’intelligenza in gara, ci sono solo punti positivi da elencare su di lui. Credo che quella con Alonso sia una grande sfida. Stargli davanti è molto dura ma abbiamo una grande opportunità. Ripetersi sarebbe davvero speciale. Lui è al vertice da diverse stagioni ed è un vincente, il che rende tutto più difficile per noi. Ma in fondo è la sfida che desideri, ciò che ti piace e il motivo per cui stai qui a gareggiare. Non si sa come andrà a finire, vedremo. Il bello è anche questo».
Lotta per un altro Mondiale: i campioni si giudicano dal numero di titoli?
«Sì e no. Di sicuro qui il successo, l’albo d’oro, conta. Gente come Alain Prost, Ayrton Senna, Jackie Stewart o Niki Lauda, ad esempio, ha vinto diversi campionati. Ma ci sono piloti che ti restano nella memoria perché avevano in loro qualcosa fuori del comune. Tutti quelli che arrivano in F.l sono veloci ma solo alcuni hanno doti speciali che li legano in modo eccezionale ai tifosi. Anche solo un gran senso dell’umorismo, o la capacità di prendersi in giro. A quel punto il numero di vittorie non è più così importante. Un esempio? Jochen Rindt. Ha conquistato un unico titolo, postumo peraltro, ma è andato molto oltre quel successo. Era un’icona, non solo per i fan tedeschi, austriaci o svizzeri (Rindt era austriaco, nato in Germania; ndr). È stata forse la prima "superstar" nel mondo dei GP. E naturalmente vestiva in modo clamoroso!».