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 2012  novembre 29 Giovedì calendario

PULICI, PALLONE E NOSTALGIA “NON FACEVAMO LE POPSTAR”

Paolo Pulici, cos’è il derby della Mole?
«Una partita che la squadra più forte e più
potente, cioè la Juve, può perdere sempre ».
Una partita che mancava da tre anni.
«Il calcio vero manca da molto più tempo».
Perché, quello di oggi è finto?
«Spesso è fatto di chiacchiere, non di sostanza. Quando giocavamo noi, il calcio era il campo, quasi non esisteva altro. Eravamo solo giocatori, non popstar, non personaggi di spettacolo. Calciatori duri ma onesti, buoni o cattivi ma limpidi».
Cosa voleva dire, per uno del Toro, vincere il derby?
«Voleva dire che molti operai della Fiat, e i granata erano assai più dei bianconeri perché a Torino si tifa Toro e non Juve, avrebbero avuto un lunedì di gioia pura, di orgoglio. Il lavoro sarebbe pesato meno».
E oggi?
«Oggi gli operai neanche ci sono più, alla Fiat».
Il calcio come sentimento collettivo?
«Come riscatto breve ma intenso per tante vite grame, come felicità o sofferenza viscerale. Come appartenenza. Adesso, al sociale si è sostituito il commerciale, non è proprio la stessa cosa ».
Lei contro la Juve segnava sempre.
«Nove gol a Zoff, in effetti: perché io vivevo il derby da un anno all’altro, la partita precedente era meno di un’amichevole, non contava. Ci allenavamo tutti i giorni al Filadelfia, sentivamo attorno a noi la presenza del mito. Scendevi dall’auto e i tifosi ti circondavano, ti caricavano, magari ti parlavano di quelli di Superga. Altro che allenamenti a porte chiuse! Nel nostro calcio, le porte per la gente erano spalancate».
Boniperti avrebbe voluto abolire il derby.
«E aveva ragione. Se ci fossero state trenta sfide all’anno contro la Juve, il Toro avrebbe sempre vinto lo scudetto».
Dunque non era solo retorica, quel sentimento fortissimo e quasi fisico di vivere la gara della vita.
«Certo che non lo era. Chi veniva dal vivaio ed era cresciuto tra i mattoni rossi del Filadelfia, aveva sempre una corsa in più dell’avversario, fosse la corsa per segnare il gol decisivo o per evitarlo».
Pensa che i giocatori di oggi sentano sulla loro pelle la diversità di quella maglia?
«Sarebbe bello, ma ho i miei dubbi. Per me, il Toro era soprattutto emozione, era intensità. Invecchiando divento nostalgico, però non bisogna vergognarsi della nostalgia quando ti fa rimpiangere, o anche solo ricordare, le cose che hanno avuto significato per te».
E il pubblico com’è cambiato?
«Mi hanno detto che per entrare nel museo della Juventus, bisogna prima passare da un ipermercato: così hanno ridotto il calcio, come una cosa da mettere nel carrello. Quando giocavo io, anche in tempo di crisi gli stadi erano sempre pieni, ora no, ora si gioca un intero turno di campionato dal sabato al martedì: ridicolo. Che la gente si disamori è il minimo, troppa offerta e bassa qualità. Il tifoso è un appassionato, non un cliente».
Pulici, come vede il derby di sabato sera?
«Come sempre: la Juve è favorita, ma il Toro è il Toro. Spero che i nostri ragazzi sappiano mantenere la schiena dritta. Se avranno anche solo un po’ del vecchio spirito granata, per gli altri non sarà una passeggiata. I bianconeri vincano pure il loro scudetto, ma soffrano il derby come dev’essere».
A differenza di molti suoi ex colleghi, lei non si è riciclato allenatore di serie A, dirigente, procuratore, opinionista televisivo. Ha preferito insegnare calcio ai bambini. Perché?
«Perché non potevo disperdere tutto quanto era stato insegnato a me: lo sentivo come un dovere verso i miei vecchi maestri. E poi, i piccolini danno gioia».
Lei è responsabile del settore giovanile della Tritium, a Trezzo sull’Adda: non le manca il grande calcio?
«Ma è questo, il grande calcio. Tutti i giorni in campo insieme ai miei bimbi, quest’anno alleno quelli nati dal 2005 al 2007, prima e seconda elementare. È bellissimo».
Ma queste personcine hanno una vaga idea di chi sia stato Paolo Pulici?
«Non lo so, forse no. Anche se ogni tanto arriva uno e mi fa: mister, l’ho vista su Internet, ce la rifarebbe quella rovesciata? E allora io penso alla mia schiena, al tempo che passa, però sono contento lo stesso».