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 2012  novembre 29 Giovedì calendario

PAUL AUSTER

[“Ho scelto di raccontare l’inverno della vita quando sbagliamo meglio”] –
A sessantaquattro anni, Paul Auster pubblica un libro di memorie intitolato Diario d’inverno (Einaudi, traduzione di Massimo Bocchiola), nel quale racconta le gioie ed i traumi della propria esistenza, partendo dalla consapevolezza di essere giunto ormai all’ultima stagione della vita. Lo scrittore riflette sul proprio corpo con i segni inesorabili della vecchiaia incipiente, sul rapporto con la moglie Siri Hustvedt, e sulla morte improvvisa della madre.
A differenza dell’Invenzione della solitudine, il libro che scrisse trenta anni fa sulla morte del padre, lo sguardo è rivolto al passato, come se volesse fermare gli attimi d’incanto, sapendo che la vita è sempre sorprendente - come quando scoprì Baudelaire grazie a una prostituta parigina. Con uno stile semplice e confidenziale, Auster parte da aneddoti insignificanti per riflettere sul senso ultimo dell’esistenza, che abbraccia anche nei momenti più dolorosi: la scomparsa delle persone care lascia vuoti lancinanti, ma il testo non si trasforma mai nell’inverno del nostro scontento. «Joubert ha scritto che “la fine della vita è amara” ed è quello che ho pensato quando mia nonna morì, con il corpo devastato dalla SLA», racconta nella sua brownstone di Brooklyn, la ventunesima casa in cui abbia vissuto. «Ma è stato lo stesso Joubert a dire anche “Si deve morire amabili (se si può)”. Credo che quest’ultimo insegnamento abbia segnato lo spirito del libro».
Lei parla già dell’inverno della vita, ma non sarà presto?
«Credo che ognuno abbia con sé sempre il senso della fine: alla mia età se ne cominciano a vedere con chiarezza i segni sul corpo».
A ottanta anni Philip Roth ha deciso di non scrivere più...
«Mi spiace molto come lettore, ma lo capisco: credo che sia stanco e forse ritiene di aver detto tutto quello che sentiva di dover esprimere».
Autori come Thomas Mann hanno scritto grandi libri anche in tarda età.
«I casi sono pochi, e sono più frequenti i poeti dei romanzieri: scrivere romanzi è faticoso. Comunque dipende sempre da quello che senti di dover dire e da come ti poni riguardo all’esistenza: quali sono le cose che vale la pena fare? E fin quanto vuoi farle? Credo sia stato anche il ragionamento di Roth».
Aveva 57 anni, e Jean Louis Trintignant le disse: “Alla sua età mi sentivo vecchio. Ora, a settantaquattro, mi sento molto più giovane”... Cos’è che voleva dire?
«Aveva appena vissuto la tragedia dell’omicidio
della figlia: non ho mai capito cosa intendesse, forse che aveva smesso di aver paura della morte. Certo era qualcosa per lui di molto importante, e io continuo a pensarci sempre».
Nel libro scrive: “Sei senza dubbio un essere menomato e ferito, un uomo che si è portato dentro una ferita dalla nascita (altrimenti perché avresti passato la vita a sanguinare parole su una pagina?)”
«Tutti gli scrittori sono persone ferite. Abbiamo bisogno di ricordare e creare altri mondi, perché quello in cui viviamo arreca dolore e comunque non è sufficiente. Siamo anime danneggiate».
Gli artisti sono sempre infelici?
«Non sempre, ma è certo che trovano sollievo nell’arte che creano».
Lei scrive che la “paura di morire probabilmente alla fin fine è più o meno come la paura di vivere”.
«Le due cose sono legate strettamente, ma nel caso specifico mi riferivo a mia madre, che era molto ipocondriaca: aveva paura che vivere interamente l’avrebbe uccisa».
Il libro ricorda che è impossibile sfuggire al dolore.
«È una presenza costante e ognuno reagisce diversamente: io piango vedendo alcuni film, ma di fronte ai dolori reali rimango congelato nell’orrore».
Come mai ha scelto di scrivere il libro in seconda persona?
«Ho iniziato d’istinto, e dopo una decina di pagine ho ragionato sul fatto che non fosse una biografia, ma un insieme di frammenti composti come pezzi di musica. La prima persona sarebbe stata troppo personale, la terza distante. Avevo bisogno di qualcosa che coinvolgesse: molte esperienze narrate sono comuni».
Ètoccante il racconto di un aborto di una sua ragazza.
«Avevo diciannove anni e lei diciotto. È un ricordo che mi riempie di dolore: mi sono sempre chiesto come sarebbe stato nostro figlio, e non so perché ho sempre pensato ad una bambina».
Nel libro affiora il rimpianto per le cose che sarebbero potute essere diverse: sua nonna diceva a sua madre: “Tuo padre sarebbe un uomo meraviglioso... se solo fosse diverso”.
«È una battuta che spiega meglio di ogni altra cosa quante contraddizioni ci siano in un lungo matrimonio: nello specifico si riferisce al fatto che mio nonno era infedele, ma credo che faccia riflettere sul senso ultimo della vita».
Con l’eccezione di un racconto del film DOA, nel libro sono assenti sia il cinema che la letteratura.
«Volevo solo parlare di cosa significhi essere vivi all’interno di un corpo che invecchia. Ho appena terminato un altro libro, intitolato Report from the interior nel quale rifletto invece sulla coscienza, la politica, la morale e l’arte».
Lei si dilunga anche sul fumo e l’alcol.
«Ho iniziato a fumare al funerale di Kennedy: sentivo la necessità di essere parte di quel momento storico e andai a Washington, dove per l’emozione fumai la prima sigaretta. Non ho mai più smesso e ora bevo e fumo troppo, per la preoccupazione di mia moglie Siri: ma lei tollera le mie debolezze e non mi sgrida. Se è in ansia è perché vorrebbe che vivessi sempre».
Uno spettacolo di danza ha cambiato la sua vita, facendole capire che avrebbe potuto essere uno scrittore.
«Avevo 31 anni e avevo già scritto più di mille pagine di narrativa che non ho mai mostrato a nessuno. Una sera andai a vedere un balletto e sentii la frustrazione di non poter esprimere con le parole dei gesti di danza così belli, ma nello stesso tempo la spinta a provarci. È come se una montagna mi si fosse levata dalle spalle, e capii quello che diceva Samuel Beckett: prova di nuovo, sbaglia di nuovo, sbaglia meglio».