Nicola Lombardozzi, la Repubblica 29/11/2012, 29 novembre 2012
QUEI SOUVENIR RADIOATTIVI AL “MERCATO” DI CHERNOBYL
[L’ultima moda è trafugare i reperti dalla città contaminata. Per entrarci basta pagare e il saccheggio diventa un gioco] –
Andiamo a rubare qualcosa a Chernobyl. Non c’è rimasto molto dopo ventisei anni di saccheggi. Ma adesso si fa più eccitante. Certo non è impresa da tutti. Bisogna darsi da fare, entrare in queste case abbandonate che sanno di morte, rovistare tra intonaci gonfi e strani topolini verdastri, avere lo stomaco di aggirarsi tra i resti di una vita sospesa, come libri di scuola con i capitoli sottolineati a penna, rasoi lasciati sul bordo del lavandino ormai giallo di ruggine, distributori automatici di acqua allo sciroppo che tanto piaceva ai bambini sovietici.
Il brivido è assicurato dal ronzio continuo del contatore che devi portarti sempre dietro. Segna i microroentgen che servono a misurare la radioattività; le possibilità che hai di beccarti un cancro a breve scadenza. A Kiev lo trovi con duecento euro da qualsiasi buon ferramenta. È grande come un vecchio cellulare e il display continua a segnare numeri sempre diversi. Quando diventano pericolosi comincia a suonare. E ti fa capire che tutta la zona che circonda il sarcofago del famigerato reattore numero 4 è una trappola mortale.
Cammini su un prato, niente. Ti avvicini a un cespuglio, un sibilo. Torni dov’eri prima, un suono terrorizzante. Allora ripieghi ancora sul cespuglio, questa volta silenzio. La morte invisibile è fatta così. Si sposta con il vento e la polvere, diventa più cattiva a seconda di temperatura e umidità.
Per muoversi con qualche speranza di sopravvivenza in questo labirinto senza volto, non basta il contatore. Ci vuole una guida. A Kiev se ne trovano tante. Taxisti spregiudicati che ti portano fin dentro al luna park della morte per meno di cento euro. La richiesta è alta. La nuova moda ha preso piede nonostante la preoccupazione della polizia. Non tanto per la salute dei
raiderquanto per la contaminazione che finiscono per regalare alle persone a cui mostrano, regalano, e qualche volta vendono i trofei radioattivi. I clienti vengono dall’Europa ma anche dagli Stati Uniti. Molti sono fanatici di S. T. A. L. K. E. R., un videogioco ucraino diffuso in tutte le lingue. È ispirato a un film di Tarkovskij che a sua volta prende a piene mani da un romanzo dei fratelli Strugatskij, pionieri della fantascienza sovietica. Cercano sul campo quello che li stimola sul video: mutanti e fantasmi che si aggirano proprio per le rovine di Pripyat.
E la realtà è ancora più sconvolgente. Il video gioco non rende il senso di questo silenzio, l’effetto spettrale della foresta che si sta riprendendo, lentamente, la via Lenin, la prospettiva Sportilvnaja, quella della piscina comunale, il porticciolo sul fiume e la leziosa stazione di aliscafi. Mutanti non se ne vedono. Poi basta guardare le betulle insolitamente grigie con un tronco che, alla base, sembra quello di una quercia. O le foglie nero lucido di un’edera mai vista che avvolgono il cartello stradale che invitava a rallentare.
A Pripyat siamo arrivati con il metodo parzialmente più sicuro. Con una guida organizzata e un tour tutto compreso “Kiev, Cernobyl e ritorno” da 80 euro, incluso un pranzo sovietico, zuppa di cavolo e pane di segala. La guida è contraria ai saccheggi, ma non ci vuole molto per ingannarla. Quattro compagni d’avventura, conosciuti alla stazione di Kiev, si danno un gran da fare. Entrano nei palazzi, si arrampicano per scale svuotate nel tempo perfino dei mattoni. Il bottino è magro ma non è male. Alla scuola elementare Numero 5, tra banchi, lavagne e vecchie carte geografiche, spariscono in un lampo un manuale “Lingua nostra”, lezioni di russo per l’infanzia, e un abbecedario d’epoca.
La guida fa finta di niente. Sa che c’è di peggio. Dopo che Pripyat fu evacuata “temporaneamente” a tre giorni dall’esplosione, i saccheggi furono una cosa seria. Vennero con camion e gru a smontare qualsiasi cosa, dalle tegole ai mobili, e tutto finì sul mercato nero con conseguenze che non conosceremo mai.
Adesso, più che il valore del bottino, conta il brivido. E i più incoscienti si scatenano. Entrano ed escono dai varchi nelle recinzioni, aggirano senza problemi le guardie anziane e disincantate che dovrebbero fermarli. Le tracce si trovano ovunque. Nei murales freschi di vernice dipinti sulle pareti dell’ufficio per il controllo delle Energia Nucleare. Nelle macchinette dell’autoscontro o nelle cabine della ruota panoramica che avrebbero dovuto entrare in funzione quel Primo maggio. Qualcuno le ha trascinate per centinaia di metri. Altri hanno portato via le imbottiture, i fregi, i gettoni che costavano pochi rubli al giro. Un gruppo ha perfino ridipinto i due giganteschi simboli dell’Urss e dell’Ucraina sovietica, sui tetti di due palazzi fantasma di 17 piani. Con la gita organizzata tutto questo non si può ma le piccole sparizioni ad opera del nostro gruppetto continuano comunque: flaconcini vuoti in ambulatorio medico, fogli di appunti incomprensibili nei resti di un negozio, mattoncini colorati in quello che rimane del cinema Prometej.
Al controllo finale, i souvenir radioattivi restano sul pullman. Un paio di militari passa un contatore sulle ruote e, vagamente, anche sulla carrozzeria esterna. I passeggeri sono invece invitati a uscire e a passare dalle macchine di controllo. Ci si abbraccia ad una vecchia e unta struttura in acciaio. Si attende con il fiato sospeso qualche secondo. Poi si illumina una scritta: Cistij, pulito. Il soldato di guardia sorride: «È tutto ok».