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 2012  novembre 28 Mercoledì calendario

ALEX SCHWAZER CHE BELLO, PIOVE E NON DEVO USCIRE

ALEX SCHWAZER CHE BELLO, PIOVE E NON DEVO USCIRE [Ricordate le lacrime che non riusciva a trattenere in conferenza stampa? cercava di spiegare come un marciatore pulito come lui avesse ceduto al doping. adesso l’oro di pechino ha gli occhi asciutti. e racconta come ha ricostruito se stesso (e l’amore con carolina)] –
Il momento che cambia la vita di Alex Schwazer è una serata afosa di fine agosto del 2011, in Corea del Sud. La mattina il marciatore altoatesino – medaglia d’oro olimpica nel 2008 a Pechino – ha gareggiato al Mondiale nella 20 chilometri, e anche se si è qualificato solo nono è soddisfatto del risultato: arriva da un periodo difficile – dopo Pechino ha cambiato allenatore, città, psicologo – e in primavera si è rotto un legamento. Ma, quella sera, gli si avvicina un gruppo di atleti stranieri che in gara sono andati forte, e che sono appena rientrati da una squalifica per doping. Sghignazzano, e c’è una frase che per Alex è una pugnalata: «Schwazer Italia 3 ore e 36, Schwazer Russia 3 ore e 30». Ovvero: il tempo che fa da «pulito» rispetto a quello che – se imitasse tanti atleti russi – farebbe da «dopato». Per Alex quelle dodici parole ne vogliono dire una sola: «Stupido».
L’estate dopo – 30 luglio 2012, vigilia dei Giochi di Londra – Schwazer viene trovato positivo al test dell’Epo: l’eritropoietina, l’ormone che aumenta l’ossigeno nel sangue e di conseguenza la resistenza, ma che da dieci anni è vietata. L’8 agosto, piangendo in conferenza stampa, l’atleta confessa, ed è uno shock nazionale: perché è il campione olimpionico in carica, l’unica speranza di un oro per l’atletica italiana, perché è considerato un esempio di serietà e sacrificio, perché è il fidanzato della pattinatrice Carolina Kostner. L’autoflagellazione – dice di aver fatto tutto da solo: l’acquisto delle fiale in una farmacia turca, le iniezioni iniziate il 13 luglio – spacca il Paese in due: da una parte chi lo condanna per aver tradito la fiducia di chi crede nello sport, dall’altra chi perdona l’uomo provato dalle aspettative e dallo stress.
Da quel giorno, Alex Schwazer è praticamente scomparso. Né la giustizia sportiva né quella ordinaria si sono ancora pronunciate: il verdetto è atteso dopo Natale. Lui però qualcosa da dire ce l’ha, e non ha più voglia di aspettare. Lo incontro a Verona in una giornata di novembre ancora mite. Nella hall dell’albergo nessuno lo riconosce: vestito casual, magrissimo, sembra più giovane dei suoi 27 anni.
Come sta?
«Bene. Ora studio Economia a Innsbruck, faccio una vita normale».
Come si fa una vita normale, dopo un suicidio sportivo come il suo?
«Quella conferenza stampa mi ha liberato. Le settimane prima – quando mi dopavo e nessuno lo sapeva – erano state le più difficili. Di giorno marciavo per 40 chilometri, di notte per l’ansia non dormivo quasi più. Steso accanto a Carolina, aspettavo con gli occhi sbarrati che arrivassero le sei – l’ora dei potenziali controlli –, mi chiedevo che cosa avrei fatto se avessero suonato alla porta. Se avessi aperto, avrei dovuto fare il test e mi avrebbero scoperto. Se avessi chiesto a Carolina di non aprire, di fingere che non ci fossi, avrei poi dovuto spiegarle il perché. Non so che cosa mi terrorizzasse di più».
Il 28 luglio, quando l’antidoping ha suonato davvero a casa dei suoi genitori, ha aperto. Non se n’è mai pentito?
«No, perché a quel punto volevo solo farla finita. Anche senza quel controllo, non credo che sarei riuscito a presentarmi alla gara. E se fossi andato, mi sarei sicuramente ritirato: non si può affrontare un’Olimpiade stando così male psicologicamente».
Davvero è bastato lo scherno dei colleghi a farle decidere – quella sera in Corea – di rinnegare i valori per i quali era diventato un simbolo?
«Se certi commenti te li fanno quando stai bene, te ne freghi. Ma io, dopo anni di delusioni, avevo un problema psicologico: quelle frasi mi hanno scatenato dentro una tale rabbia, un tale senso di ingiustizia. Mi sono detto: o smetti subito o ti arrangi come fanno tanti, troppi altri. Ma è difficile smettere, dopo che per anni hai fatto 40 chilometri al giorno. Non volevo avere un vantaggio, solo non partire svantaggiato».
In questo modo lei sta dicendo che nella marcia sono quasi tutti dopati, o almeno sono tanti?
«Sto dicendo che, degli otto russi qualificati per l’Olimpiade del 2008 tra aprile e maggio, ne hanno beccati cinque ai controlli antidoping. Non cerco scuse, so di aver sbagliato, voglio solo spiegare come sono arrivato a fare un errore così stupido. Un mese dopo quella sera, sono andato in Turchia a comprarmi l’Epo».
Perché tanto anticipo, se la prima iniezione se l’è fatta il 13 luglio del 2012, quasi un anno più tardi?
«Stavano per iniziare gli allenamenti, non avrei mai più avuto tre giorni liberi per programmare il viaggio. E, come ho spiegato, volevo fare tutto da solo, non coinvolgere nessun altro».
Ha dichiarato di aver tenuto le fiale nel frigorifero della sua fidanzata, in Germania. Non pensa di aver messo a repentaglio anche la sua reputazione?
«Lei non rischiava, le ho messe nel suo frigo quando sono andato in raduno in Germania prima dell’Olimpiade, nascoste in una scatola di vitamine B12, e nessuno secondo me poteva sospettare di lei. È rimasta male, piuttosto, perché non mi sono confidato. Ma le ho detto: “Quante gare avresti fatto quest’anno se avessi saputo che mi volevo dopare?”. Sarebbe stata così angosciata che anche la sua stagione agonistica ne avrebbe risentito».
Ha tenuto l’Epo in casa quasi un anno prima di farne uso. Non ha mai avuto ripensamenti?
«Tanti, dopo che i primi test e allenamenti del 2012 erano andati bene. Ma psicologicamente continuavo a essere instabile, e la rabbia tornava. Alla fine – anche per il fatto che oltre la 50 chilometri avrei dovuto fare la 20, gare molto diverse tra loro anche per preparazione – ho ceduto».
Sentiva la pressione di tornare a vincere, di non deludere le aspettative create a Pechino.
«La pressione più pericolosa è quella che ti crei da solo, e io sono un maestro nel rovinarmi la vita. Fin da bambino sognavo di andare all’Olimpiade, ci sono arrivato, ho addirittura vinto l’oro, eppure mai una volta sono riuscito a fermarmi a godere di quel risultato. Sempre a pormi nuovi obiettivi».
Che cosa spinge un ragazzino di 15 anni a scegliere uno sport di così tanta fatica e solitudine?
«Avevo a lungo giocato a hockey, ma non accettavo che il risultato dipendesse così tanto dalla prestazione degli altri. Sono bradicardico – il mio cuore batte più lentamente della media –, quindi portato per gli sport di resistenza. E la costanza è nel mio carattere: se decido di fare qualcosa esagero, non vedo altro. Proprio per non esagerare anche adesso nello studio – che tra l’altro mi costa fatica, avendo io lasciato la scuola nove anni fa – ho scelto una università vicina a casa, in modo da non perdere il contatto con gli amici e con la mia famiglia. Con l’aiuto di uno psicologo sto tornando ad apprezzare le cose belle che ti offre la vita quotidiana, che quando ti isoli non vedi più, e che invece servono anche per andare forte nello sport. Infatti a Pechino ero arrivato sereno perché quello stesso anno, in aprile, avevo conosciuto Carolina, mi ero innamorato, e per un mese ero andato tutte le sere a Torino da lei».
La presenza di Carolina non l’avrebbe potuta aiutare anche quest’anno?
«Non è facile aiutare uno come me, non è facile capire che cosa ho in testa. Tutti si stupiscono che neppure il mio allenatore sospettasse nulla, ma io ero così fuori di me che ero diventato persino bravo a fingere. Mi avrebbe potuto aiutare solo una persona davvero competente, ma da questo punto di vista sono stato lasciato completamente solo».
La sua fidanzata le è rimasta accanto. Molti scommettevano che l’avrebbe lasciata.
«Invece ad aprile festeggiamo cinque anni insieme, e questa difficoltà – come i problemi di carriera che lei ebbe due anni fa – ci ha resi ancora più uniti. Se c’è una persona che può capire e perdonare quello che ho fatto, è lei: noi sportivi siamo estremi, viviamo di pressione e disciplina, e se non stiamo bene psicologicamente rischiamo sempre di cadere».
Al Tg1, nei giorni dello scandalo, ha detto che le pesava essere «il fidanzato della fidanzata». Soffriva la maggiore visibilità di Carolina?
«No, non c’è mai stata competizione tra noi. Piuttosto, soffrivo il fatto che nelle interviste, invece di farmi domande sul mio sport, passassero quasi tutto il tempo a chiedermi di lei».
Ha detto che Carolina, al contrario suo, ama quello che fa. Significa che era arrivato a odiare il suo sport?
«Significa che Carolina va a pattinare anche quando non deve allenarsi, e lo farà ancora a quarant’anni, per puro piacere. Io invece marciavo per un progetto».
Com’è, oggi, la vostra vita?
«Più facile. Senza i miei impegni sportivi, posso adattarmi meglio ai suoi. Vado spesso a trovarla dopo le lezioni, cucino per lei in attesa che torni dagli allenamenti: sarebbe stato impensabile, prima».
È stato innamorato tante volte nella sua vita?
«No, solo due. Di lei e della fidanzata precedente. Eravamo stati insieme un anno e mezzo, l’avevo lasciata perché – dovendo prepararmi per Pechino – pensavo non ci fosse spazio per una ragazza nella mia vita. Un mese dopo ho conosciuto Carolina, e non è un caso se con lei ha funzionato: quando una non sa nulla di sport, fatica a capire la vita di sacrifici che fai. E, dopo un po’, questo pesa».
Ho letto che il suo fratellino Oliver – quello del famoso spot – è uno studioso di lingue classiche.
«Greco e latino: ha appena vinto una borsa di studio universitaria a Londra».
Niente male per due ragazzi cresciuti in montagna in un paese di trenta abitanti.
«I nostri genitori ci hanno insegnato che, se vuoi fare una cosa, la devi fare bene. Sa che cosa mi ha dato più fastidio in questi anni? Quelli che, quando vinci l’oro all’Olimpiade, ti dicono: “Ti ricordi di me? Ho sempre saputo che eri il più forte”. Balle. Mi allenavo e pensavo: perché tutti questi sacrifici, se poi c’è sempre qualcuno che si prende il merito?».
Di solito chi vince ha pensieri più positivi.
«Ma io sono contorto».
Suo padre ha detto di sentirsi in colpa per non esserle stato vicino.
«Penso sia normale, per un genitore, colpevolizzarsi. Ma loro sbagliano: finché sono stato in casa, mi hanno dato tanto. Solo che da sei anni vivevo fuori, per allenarmi, e parlare era diventato più difficile. E poi già li vedevo preoccupati per le piccole cose: se li avessi messi di fronte ai miei problemi, sarebbero andati in panico».
Vi siete chiariti, dopo?
«Mio padre mi è stato vicino, proprio fisicamente, non mi ha mai lasciato solo nei giorni dopo la conferenza. Con mia madre è stato diverso perché a lei avevo parlato delle mie debolezze, dei miei sospetti sui risultati degli altri atleti. Non si è sentita in colpa come mio padre, ma credo abbia sofferto anche di più».
Tornasse indietro, farebbe una vita diversa?
«No, perché la mia storia è questa. Mi spiace aver deluso le tante persone che mi vedevano come un esempio, mi spiace aver buttato via la mia carriera, e non penso di meritare una fine così, ma quello che è successo rispecchia la persona che sono: uno sportivo che ha dato tutto, e un uomo forse troppo sensibile. Lo accetto».
Il suo errore di oggi rischia di gettare un’ombra di sospetto anche sul trionfo di quattro anni fa.
«Per questo ho subito chiesto che fossero rese pubbliche le mie analisi di allora, ma nessuno l’ha ancora fatto. All’epoca avevo valori quasi da anemico,
incompatibili con l’uso di Epo. Ho sbagliato, lo ripeto, ma nessuno può togliermi la medaglia che ho vinto a Pechino, con onestà e anni di sacrifici».
Guardi però il ciclista americano Lance Armstrong: squalificato a vita, e tutti i titoli cancellati, dal 1998 a oggi.
«Il suo è un caso diverso: ci sono testimonianze che lo accusano di avere praticato sistematicamente il doping per tutto quel periodo. Teoricamente potrei anche accettare la squalifica a vita, se servisse a dare un segnale. Ma allora deve valere per tutti, non solo per me. Altrimenti passa il messaggio che chi è trovato positivo ma non confessa se la cava con una breve squalifica, mentre chi ammette si becca la punizione esemplare».
Nel caso Armstrong è coinvolto Michele Ferrari, il medico che per un certo periodo ha seguito anche lei.
«Non sapevo che il dottor Ferrari fosse stato radiato dal Coni nel 2002. Ci ho lavorato nel 2010, perché era un ottimo preparatore atletico, ma non abbiamo mai parlato di doping. E da quando il suo nome è stato legato all’inchiesta, nel 2011, non ho più avuto contatti con lui».
Tornerebbe a marciare, se il verdetto fosse mite?
«Al momento, per me, questa opzione non esiste. Il mio obiettivo oggi è ricostruirmi come uomo, ritrovare un equilibrio. E non è facile anche perché, al di fuori dello sport, non avevo interessi».
Da agosto non ha più marciato?
«Mai. Il giorno in cui sarò più tranquillo – quando si sarà calmata del tutto questa rabbia che dentro un po’ c’è ancora – forse tornerò a fare sport, ma solo per mio piacere».
Che cosa succede a un fisico che passa da quaranta a zero chilometri al giorno?
«Perde tutti i muscoli (si tocca il torace pelle e ossa, ndr). Non sono ingrassato perché mangio pochissimo: stando tutto il giorno seduto, mi bastano pochi bocconi per essere sazio».
Qual è la cosa più bella della sua nuova vita?
«Stare seduto in classe in mezzo a ottanta ragazzi, guardare la pioggia fuori dalla finestra e pensare: “Che bello, oggi non devo uscire”».