Pino Corrias, Vanity Fair 28/11/2012, 28 novembre 2012
LEI E’ LA MOGLIE? AH, HO CAPITO
[Giulia che abita a Roma. Corrado (o forse è Gustavo?) sempre in viaggio tra Monza e la Romania. Si incontrano su Facebook, si innamorano. Fino a un giorno tragico. Fino a quando lui le chiede: «E tu che ci fai qui?». La prima di una serie di storie d’amore. Speciali perchè vere]
Giulia abita sogni al secondo piano di via dei Serpenti, cuore di Roma. Coltiva ricordi sentimentali e qualche piccola pioggia di rimpianti. Ha 39 anni, gli occhi grandi e un cuore che avrebbe voluto dedicare a un uomo, a una casa al mare, a un paio di bambini. I bambini non sono mai venuti, la casa al mare non l’ha mai trovata, e gli uomini non si sono mai fermati abbastanza a lungo. Il tempo ne contiene alcuni, altri non hanno lasciato traccia. Uno solo di loro ha un posto speciale. Un anno fa stava seduto al centro dei suoi pensieri, aveva gli occhi neri, il ciuffo da ragazzo, il sorriso da impunito, l’aria di uno in transito, adatto alle due vite che viveva in parallelo, poco prima che al suo check-in di arrivi e di partenze, atterrasse il destino.
Quando ripensa a Corrado, comparso nella sua vita da un incrocio digitale di Facebook, Giulia apre il suo volto di donna bambina in un sorriso di nuovo smemorato. Ma poi mentre procede nel racconto di questo suo amore di soffocante intensità – anche se è durato solo quattro mesi, compreso il lunghissimo viaggio ai confini della morte – il suo sorriso diventa amaro come l’inchiostro versato: «Ho scritto il diario di quei giorni. Poi ho perso quei giorni e il diario. E anche questo è un segno».
Però ricorda come quel diario si apriva alla data 3 aprile 2011: «In metropolitana scrivo di te. Fa freddo. La tua voce di ieri al telefono mi tiene al caldo». Ricorda che quel giorno indossava la sua giacca e la sua sciarpa preferite. Lui sarebbe arrivato a Roma quella sera, immaginava già il suono del citofono: «Sono io, mi apri?», le scale fatte di corsa, fino al terzo e ultimo piano, poi lei gli avrebbe aperto la porta per farlo entrare nella sua casa calda, le candele accese, la cena pronta. Per quell’appuntamento, Giulia si era tagliata corti i suoi capelli biondi perché lui, una settimana prima, sul cuscino della loro penultima notte insieme, le aveva raccolto i capelli in una mano, glieli aveva nascosti sotto la nuca, le aveva detto: «Con i capelli corti sei ancora più bella». E ora quei capelli tagliati via erano il suo primo regalo a quel nuovo amore. Il suo pegno. Anche se non aveva pensato che togliere non è mai come dare.
Corrado quella sera sarebbe arrivato in volo dalla Romania, dove da un anno e mezzo fabbricava scarpe da quattro soldi, ma con il marchio italiano, più o meno simili a quelle che da due generazioni sfornava nei capannoni di famiglia a Vigevano, la capitale della tomaia a basso costo e della vita ad alto reddito, con la sua piazza più bella d’Italia. Ma anche paesone affamato di soldi, titolare di quell’aria tetra che aveva avvelenato fino al suicidio la vita di Lucio Mastronardi, illuminandogli di crudeltà le pagine di quel suo antico capolavoro, Il calzolaio di Vigevano, dove qualunque cuore geme, come fanno le cattive scarpe che conducono sulla cattiva strada dei cattivi sentimenti.
Nel mondo immaginario di Facebook, Corrado appariva con un nome fasullo, Gustavo, con una professione inventata, il fotografo, uno stato di famiglia semplificato, celibe e cacciatore, con un carattere solare di quelli che dicono: devi sorridere alla vita, non devi mai voltarti indietro, guarda me.
Nel mondo vero della vita vera Gustavo, cioè Corrado, fabbricante di scarpe, non era celibe, aveva una figlia ancora piccola, una moglie di pelle dura che gli lasciava coltivare vite immaginarie e bugie, come se fosse un figlio adulto, purché non intaccasse mai il decoro della famiglia.
Giulia non immaginava che accettando la sua amicizia – tramite l’amico di un amico, come capita nelle interconnessioni che mimano la vita senza mai toccarla per davvero – stava per entrare in quei territori d’ombra dove le avventure virtuali perdono la loro iniziale semplicità di superfici che corrono senza ostacoli e diventando vere si riempiono di spigoli inattesi, di schegge del passato, di punte acuminate.
Nella pagina di questo Gustavo aperta per la prima volta Giulia aveva trovato la foto di una strada di Budapest con il Danubio che taglia l’orizzonte e il cielo pieno di pioggia. Racconta: «Quella malinconia mi colpì. Non so neanche perché. Suggeriva l’idea che portasse da qualche parte, magari verso un lieto fine».
Così manda un commento a quella foto. E dal commento nasce cosa. Cioè nasce una chat di convenevoli: come ti chiami per davvero, quanti anni hai, cosa fai, dove abiti eccetera. All’inizio solo schermaglie, poi qualche spiraglio di identità reciproche, mi chiamo Giulia, mi chiamo Corrado.
Io abito a Roma, dice lei.
Io abito a Monza, dice lui, ho 40 anni, fabbrico scarpe a Vigevano e in una città vicino a Bucarest, viaggio molto, fotografo paesaggi per non sentirmi troppo solo, troppo nel nulla, alla deriva. Sarà stato questo dettaglio a commuovere Giulia?
Lei gli scrive: vivo da sola, lavoro nell’ufficio legale di una banca, scrivo lettere piene di commi e di regolamenti, mai una volta che ne riceva una che mi parli d’amore, come capita nei romanzi che leggo due volte al giorno in metropolitana. Sarà stato questo dettaglio a incuriosire Corrado?
Il loro reciproco viaggiare, lui in aereo, lei in metropolitana, diventa un appuntamento: martedì sarò nelle Marche, dice lui, allungo di tre ore la strada e ti invito a pranzo.
Conosci Roma, gli chiede?
Io no, ma il mio Navigatore la sa a memoria, le risponde.
Allora digita Palazzo delle Esposizioni, parcheggia in una laterale, ci vediamo sulla scalinata domani all’una.
Era febbraio.
Racconta: «Arrivo e lo vedo. È più alto di quanto mi immaginassi. Ha un giaccone blu da marinaio e anche il sorriso è quello. Mima un baciamano, mi prende sottobraccio, mi dice: tu sei tu?».
Così quel riconoscersi tra la folla diventa il primo gesto di intimità. Che non è più il parlarsi separati da uno schermo fatto d’acqua, ma una voce, un viso, un’andatura. Le loro si sintonizzano già al primo marciapiede.
Giulia a quel tempo veniva da due storie durate poco e finite nel nulla. Si annoiava al lavoro, progettava un lungo viaggio per uscire da quella sequenza di gesti quotidiani che la teneva contemporaneamente sospesa e prigioniera. Sua madre, che la chiamava al telefono quasi ogni sera, le raccontava così tanti fatti accaduti nel suo mondo di quieta campagna siciliana – la vicina, l’aranceto, il nonno, la cugina, i nipoti, la pioggia, il cane con i cuccioli, la tettoia che perde, il sindaco che si è ammalato, l’altare della chiesa da aggiustare, il parroco che invecchia – che Giulia finiva per provare un po’ di angoscia per quel mondo lontano così pieno e per il suo così vuoto. Quel pensiero riusciva sempre a sorprenderla generando un piccolo silenzio che sua madre, da laggiù, riempiva con la solita domanda: «E allora? Stai frequentando qualcuno?».
È da quando se n’è andata via che Giulia viene inseguita da quella domanda. Si è laureata a Palermo, dove il suo primo fidanzato si chiamava Andrea, studiava Medicina, la soffocava con i suoi racconti trucidi di sala operatoria e con la gelosia. Meno male che non se lo era sposato, come voleva sua madre, immaginando molti marmocchi per casa e pure un medico gratis in famiglia per la vecchiaia. A 26 anni era partita per il suo primo lavoro a Torino, viaggiando in aereo la prima notte dell’anno 2000 con l’angoscia che tutti i computer andassero in tilt portandosi via la sua nuova vita di giovane scalatrice del mondo. Era invece atterrata tra il carillon dei viali torinesi, le voci attutite in ufficio, la cioccolata calda nei bar arredati con il cuoio rosso e i cristalli, i primi appuntamenti d’amore con il suo capo, Matteo, che maneggiava con successo gli investimenti esteri della banca, ma era un disastro con quelli del cuore. Lo trovò che stava divorziando e non riusciva più a dormire. Divenne prima la sua amante, poi il suo rimpianto: troppe ansie, troppo alcol, troppi interni di penombra torinese. Tra Matteo e la vita, Giulia scelse Roma,
la luce dell’Aventino, i pini marittimi di Villa Borghese, il gelato alla cremeria del Pantheon. Nel nuovo ufficio contratti incontrò la sua amica Maria, programmò vacanze a Sabaudia, ebbe un paio di fidanzati leggeri, qualche mal di testa, molti inviti a cena e pure una bellissima avventura con un viaggiatore americano col quale vide il sole sorgere sui Fori Imperiali, una mattina di giugno, mentre volavano le prime rondini nell’aria smagliante e tutti i millenni di Roma sapevano di caffè caldo e di croissant.
Il pomeriggio che lui ripartì per Austin, Texas, lei lo accompagnò a Fiumicino. Lo vide sparire lungo i corridoi dell’addio. Tornando le squillò il telefono. E quando sua madre le chiese: «Allora, frequenti qualcuno?», lei finalmente scoppiò a piangere.
«Ho pianto per mezz’ora come una bambina», gli stava raccontando Giulia. Erano seduti da due ore ai tavolini esterni della trattoria Fish, sotto casa sua, e chissà perché Giulia si era imbarcata in quella storia della sua vita, incoraggiata dagli occhi di velluto di Corrado, dal vino bianco, dall’improvviso sole che scaldava tutta Roma, anche se era febbraio e tutti e due mangiavano con la sciarpa annodata al collo e il cameriere anziano, per prenderli in giro, gli aveva detto: «Fate con comodo, l’amore scalda più di un brodo».
Corrado ascoltava e le scattava foto. Trafficando con l’iPhone gliele spediva, da un capo all’altro del tavolo, ma passando per qualche antenna lontana.
Senza mai perdere l’aria di uno che ha molte vite, le raccontò la più breve della sua collezione. Era sposato da cinque anni e infelice da quattro. Il suo solo amore erano i riccioli d’oro di sua figlia, detta Bonbon, che stava imparando a camminare e a dire papà: non potrei mai vivere senza di lei, le disse. E questo lo obbligava a vivere anche con sua moglie, Loredana, nella loro grande casa di Monza, con i genitori di lei al piano di sopra e con tutti i desideri finiti chissà dove, dentro migliaia di scarpe e migliaia di chilometri. Perché lavorare e viaggiare era la sua personale via d’uscita, il suo biglietto di entrata allo spettacolo della vita che ogni giorno provava a fotografaree a riprodurre dentro il suo inseparabile iPhone, mandando messaggi e raccontando storie ai suoi cento amici che lo conoscevano come Gustavo, il re della vita allegra. Mentre invece si sentiva un solitario «duca della malinconia».
Al loro tavolo venne un tizio con la fisarmonica a suonare Michelle. Poi venne quello dei fiori. Poi il cameriere anziano portò il gelato. E insomma tutto era così perfetto che quando lui le disse: «Tra un’ora devo ripartire», Giulia trovò naturalissimo baciarlo per approfittare di quel tempo residuo e rallentarlo. Racconta: «Invece il bacio accelerò tutto. Dieci minuti dopo eravamo sul mio divano bianco a spogliarci, a cercarci, a rotolarci, presi da una frenesia che era come quando sott’acqua risali di corsa perché ti manca l’ossigeno, ti senti scoppiare, e quando arrivi a galla spalanchi la bocca, ti riempi d’aria e la luce è così potente che ti viene voglia di gridare».
E dopo un’ora, che era sembrata lunga quanto una intera notte, Corrado era davvero ripartito per la sua vita di prima, o almeno così sembrava a Giulia quando si ritrovò da sola sul divano vuoto. Anche se poi nulla era più stato come nella vita di prima. Il lavoro era diventato più leggero, la metropolitana più luminosa, le era tornata voglia di fare la spesa, riordinare casa, comprare nuovi fiori.
La settimana successiva, Corrado era tornato, questa volta per cena e per l’intera notte che volò via come se fosse durata una sola ora. Alla mattina avevano fatto colazione insieme, lui doveva ripartire per Milano in automobile, pioveva, il mondo sembrava più misterioso del solito, e fu a quel punto che Giulia gli disse: «Se vuoi ti accompagno».
«Mi accompagni dove?».
«A Monza, anzi no, a Milano».
«E puoi?».
«Chiamo l’ufficio e mi prendo un giorno».
L’avevano fatto per davvero, cinque ore di autostrada e di paesaggi a raccontarsi la vita – piena anche lei di curve, di gallerie, di rettilinei – fermandosi in una trattoria a Barberino, poi dritti fino alla Stazione Centrale di Milano, dove Giulia avrebbe preso il treno di ritorno, come in una caccia al tesoro. E il tesoro era questa cosa che nasceva.
A custodire il tesoro erano i messaggi, le foto, le brevi telefonate clandestine e quelle lunghissime, dove Corrado parlava dei desideri di Gustavo, il suo alter ego, che avrebbe voluto divorziare da Loredana, cercare una casa, arredarla insieme, riempirla di bambini. Un giorno l’aveva addirittura portata in piazza Ducale a Vigevano: «Dimmi il lato che ti piace di più della piazza. In quello che sceglierai comprerò un appartamento. E lì vivremo insieme». La proposta era così semplice, così diretta, che lei gli aveva creduto. Il loro amore si perfezionava a ogni appuntamento. Conquistava terreno di giorno e anima di notte.
Così quel famoso 3 aprile, dopo essersi tagliata i capelli alla mattina presto, dopo il lavoro, dopo la metropolitana, dopo la spesa e la preparazione della cena – risotto fermo a metà cottura, agnello con le patatine, candele accese ovunque – Giulia lo aspettava da un momento all’altro, erano tre mesi che stavano insieme, ma i fili si erano così intrecciati che sembravano tre anni. E qualcosa stava per succedere, sentiva la felicità pulsare, sentiva l’impazienza.
Ed ecco il citofono che suona. Lui che sale le scale di corsa, lo sente arrivare, gli butta le braccia al collo, si baciano arretrando, lui le accarezza i nuovi capelli, le dice sei bellissima, si chiudono la porta alle spalle e lì a metà del corridoio sono già avvinghiati, lei con la faccia contro il muro, il corpo in tensione, il vestito tirato su e lui dietro che la tiene stretta e le soffia parole tra il collo e l’orecchio, entrambi imprigionati dallo stesso desiderio che spinge.
È in quel momento che tutto il mondo compresso in quel corridoio viene strappato via da una forza improvvisa. «Sento le mani di Corrado che lasciano la presa e tutto cade all’indietro, ma senza un suono, senza un lamento. Mi volto, non capisco, cerco la luce, l’accendo e vedo il suo corpo sul pavimento, i suoi occhi sbarrati, la bocca spalancata, lo chiamo, lo scuoto, mi viene da gridare, il cuore mi esplode».
Esplode, ma senza alterare il silenzio della scena. Giulia reagisce lucidissima, nonostante l’affanno le tolga il respiro. Chiama il 118, detta l’indirizzo, dice è urgente, sta morendo, aiutatemi. Ma non grida, anche se vorrebbe, obbedisce alle istruzioni dell’operatore, mette un cuscino sotto la testa di Corrado, gli guarda gli occhi, gli conta i respiri, gli tiene le mani, ascolta la voce che le ripete: stiamo arrivando.
«Ho sentito la sirena dell’ambulanza, sono saliti in quattro. Uno di loro ha detto: aneurisma cerebrale. Un altro ha detto: è vivo, facciamo in fretta. Mi sono infilata un maglione. Ho preso la borsa di Corrado e li ho seguiti giù per le scale. Mentre chiudevano l’ambulanza mi hanno detto: venga all’ospedale San Giovanni. Non posso salire? No. Mi sono infilata in un taxi, volevo svenire, cancellare tutto, nascondermi in una stanza buia, invece correvo».
È sotto i neon ghiacciati di Terapia intensiva che Giulia ha dovuto affrontare il nuovo mondo che l’aveva appena avvolta, strappando via quello vecchio. Il primo medico le ha detto, è in condizioni disperate, lei è la moglie? Una parente? Ah, ho capito.
Poi è arrivata un’infermiera a chiedere nome e cognome del paziente, indirizzo, telefono di casa, lei è la moglie, una parente, ah, ho capito.
Quindi è arrivato il responsabile del reparto che le ha detto: le confermo la diagnosi, aneurisma cerebrale. Ora è in coma farmacologico. È grave, molto grave. Dovremo avvertire i famigliari, sono a Monza, giusto? Che lei sappia il paziente ha preso del Viagra, degli eccitanti, avevate bevuto alcolici, usate cocaina?
Giulia sentiva quanto si fosse allontanata la semplice storia tra lei e Corrado, quanti intrusi erano entrati in scena tra lei e lui. Quanto era profondo il burrone nel quale erano precipitati e come sarebbe stato complicato risalire.
Passò la prima ora. Avrebbe voluto avere il coraggio di chiedere: si sveglierà, vivrà?
Invece Giulia rimaneva seduta accanto alla borsa da viaggio di Corrado che ora le appariva priva di senso, dato che Corrado, nel nuovo mondo, aveva raggiunto un luogo remotissimo, tra la vita e la morte, irraggiungibile, anche se stava dietro alla doppia porta del reparto, a metà corridoio. E in quella stanza – era riuscita a vederlo per un attimo – non aveva bisogno di nessuna borsa da viaggio, era steso immobile, nudo, come il Cristo del Mantegna, ma agganciato a molti fili e spie luminose e impulsi audio che lo tenevano attaccato alla vita.
La notte fu interminabile. I medici chiamarono la moglie di Corrado a mezzanotte. Ma lei disse, vi state sbagliando, mio marito è a Bucarest, non a Roma. Non servì nemmeno dirle: controlli questo numero, ci richiami lei, siamo l’Ospedale San Giovanni di Roma. Lei disse: se non la piantate chiamo i carabinieri. Lo fecero loro. All’una una pattuglia dei carabinieri suonò alla porta e la moglie scoppiò a piangere. Alle due Giulia stava parlando con un certo Lorenzo, il miglior amico di Corrado, recuperato tramite Facebook. Parlarono senza essersi mai visti, di amore, malattia, sesso, tradimenti, della moglie di lui, della paura di lei, del fatto che ora Giulia doveva sparire per lasciare il posto a Loredana che stava viaggiando in taxi verso Roma. E lo faceva portandosi dietro il lembo di un sipario.
Nel nuovo teatro, era Giulia l’intrusa. Corrado rimase in coma 15 giorni. Loredana presidiava la scena, nessuno, tranne lei, il padre e una sorella erano autorizzati a entrare nella stanza, né a parlare di quello che era successo al suo Corrado, perché fosse a Roma e non a Bucarest, chi era la donna che (in fin dei conti) gli aveva salvato la vita.
Giulia riusciva a vederlo solo in certe ore, quando la moglie lasciava libero il campo e l’infermiera della prima notte le diceva: passa di qua, indossa il camice, hai al massimo dieci minuti, e lei entrava nella stanza, lo guardava, gli parlava, calcolava di quanto fosse dimagrito dall’ultima volta.
Racconta: «Mi aspettavo che prima o poi lui avrebbe aperto gli occhi per sorridermi e chiedermi: dov’eri finita, amore mio? Io gli avrei detto, sono sempre stata qua, aspettando il tuo ritorno».
Invece Corrado tornò senza tornare. Accadde il sedicesimo giorno, quando lei entrò nella stanza e lo trovò sveglio, ma con occhi lenti e vacui. E una voce ancora piena d’altri mondi lontanissimi, dai quali, senza sorridere, disse: e tu cosa ci fai qui?
Giulia ancora piange quando racconta: «Sono stupida, vero?». E non si spiega di come abbia fatto a credere a quei racconti dorati sull’amore infrangibile che li univa; ai giorni futuri che avrebbero diviso a metà; al solo viaggio che le interessava fare con lui, quello dove la cosa più bella è non partire.
In cima al cornicione, Corrado aveva fatto la sua scelta, si era messo in salvo nella casa di sempre. Le aveva detto: ho bisogno di mia moglie e di mia figlia. Le aveva detto: è meglio se non ci vediamo più, sono tanto stanco, lasciami solo.
Ma a Giulia quell’addio ancora non bastava. Era una ferita così profonda che quando lui, un mese e mezzo dopo, dal nulla della Rete saltò fuori con un sorriso, il suo dolore divenne più dolce. Ricominciarono a parlare nel mondo digitale, dove è tutto più facile e anche i vecchi sogni sembrano veri.
Poi venne fuori un invito a Milano. «Ho pensato: è pazzo, non ci andrò mai». Ma quel pensiero era una copertura. Prese il treno. Prese l’albergo. E prese Corrado di nuovo tra le braccia, come se l’abbraccio potesse farle passare per sempre quel dolore.
Passarono la notte a spiegarsi quello che non andava spiegato. Fecero l’amore, ma senza slancio. Corrado la mattina lasciò sul comodino i 150 euro per pagare la stanza. E la cosa finì lì.