Il Sole 24 Ore 28/11/2012, 28 novembre 2012
DOVE SON FINITI I NOSTRI RISPARMI
Pubblichiamo uno stralcio del volume scritto da Gianni Dragoni dal titolo Banchieri & compari. Come malafinanza e cattivo capitalismo si mangiano i soldi dei risparmiatori (Chiarelettere)
La guerra della finanza
Tutto è cominciato con l’esplosione della bolla immobiliare negli Stati Uniti. L’inizio della crisi viene fatto risalire al 6 agosto 2007, quando è fallita una società di mutui, la American Home Mortgage. In seguito molti istituti di credito sono finiti in bancarotta e milioni di persone indebitate hanno perso la casa. La situazione si è aggravata l’anno successivo, quando è fallita a New York una delle più grandi banche d’affari del mondo, la Lehman Brothers: era il 15 settembre 2008, una data che «entrerà nella storia come un punto di svolta, come il 1989, il 1945, il 1929 e il 1917», secondo David Priestland, professore di Storia all’Università di Oxford. Quindi la grande crisi si è estesa all’Europa, come una guerra mondiale tra sistemi finanziari. Oggi in Europa ci sono 25 milioni e mezzo di disoccupati.
L’Italia, con la Grecia e la Spagna, è tra i Paesi più colpiti. La povertà e l’aumento delle disuguaglianze sociali sono una minaccia anche per le democrazie, perché sono il terreno di coltura delle tentazioni autoritarie.
Ci hanno raccontato per anni che le banche italiane erano «tra le più sicure d’Europa» e «hanno resistito meglio alla crisi». Lo abbiamo sentito ripetere dall’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e da Corrado Passera, già amministratore delegato di Intesa Sanpaolo e oggi ministro di uno Sviluppo economico che non c’è. In realtà le nostre banche sono tra le più colpite dalla crisi. Sono imbottite di titoli di Stato ad alto rischio, acquistati quando sembravano un investimento sicuro e oggi svalutati a causa del crollo di fiducia soprattutto degli investitori esteri.
Le più fragili sono le grandi banche, nate da acquisizioni e matrimoni che hanno reso i loro top manager famosi e strapagati come star. Mentre ai piani bassi si tagliano posti di lavoro per realizzare risparmi e ottenere quelle che i dirigenti e gli immancabili consulenti chiamano "sinergie", ai piani alti il credito viene spesso accordato sulla base di relazioni che prescindono dalla solidità dei progetti imprenditoriali. Tra gli amici e i compari ci sono personaggi a cui i banchieri non hanno mai negato un aiuto come il costruttore Salvatore Ligresti, indebitato per più di due miliardi di euro, l’ex re del mattone Luigi Zunino, salvato dalle banche dopo una serie di operazioni immobiliari e finanziarie spericolate che avevano portato i suoi debiti a più di tre miliardi, e il finanziere Romain Zaleski, esposto per cinque miliardi verso le banche e grande debitore di Intesa Sanpaolo.
Questo libro racconta le speculazioni delle banche e gli artifìci della finanza, i finanziamenti facili agli amici e il credito negato alle imprese sane, la ragnatela di relazioni, gli incroci incestuosi, i conflitti d’interessi, i trucchi per aggirare il fisco con un’evasione miliardaria e i meccanismi moltiplicatori simili a scommesse o a puntate in una bisca. A farne le spese sono i risparmiatori e i contribuenti. Perché la crisi delle banche si ripercuote anche sul debito pubblico. Intanto, nella penombra, c’è qualche banchiere in grisaglia o un cinico operatore che incassa un bonus milionario costruito sulle disgrazie altrui. (...)
Mediobanca, un salotto
pieno di conflitti
Unicredit è il principale azionista di Mediobanca, il cosiddetto "salotto buono" del capitalismo italiano. Ma se andiamo a guardare meglio, dentro Mediobanca scopriamo un groviglio di interessi e relazioni. Non si capisce neanche bene chi comandi. Perché Unicredit, che ha l’8,66 per cento di Mediobanca, ne condivide il comando con una trentina di soci finanziari e industriali, alcuni dei quali hanno quote piccolissime, meno dell’1 per cento. I soci sono uniti da un accordo particolare, detto "patto di sindacato", che raggruppa circa il 43 per cento del capitale della banca.
Si tratta di un accordo tra più soggetti che, non avendo i soldi per controllare da soli un’impresa, mettono insieme le loro azioni. Nelle decisioni più importanti, per esempio la nomina del consiglio di amministrazione che guida la società, sono loro che prevalgono, approfittando del fatto che nelle società quotate una larga parte del capitale è polverizzata tra migliaia di piccoli azionisti. Questo sistema obbliga tutti ad andare d’accordo, cosa che tra i signori del capitalismo accade di rado.
Mediobanca assomiglia a un grande condominio abitato da personaggi molto diversi, da Silvio Berlusconi a Diego Della Valle, da Ennio Doris a Giampiero Pesenti, dai Benetton alla famiglia Gavio, signori dell’asfalto a pedaggio, fino a Salvatore Ligresti, il finanziere e immobiliarista che nel luglio 2012 ha dovuto cedere all’Unipol il controllo del suo gruppo, super-indebitato e in profondo rosso, ma per molti anni ben sostenuto dalle banche. I soci francesi, guidati dal finanziere Vincent Bolloré, titolare del 6 per cento di Mediobanca, hanno un peso importante, potendo contare sul 10 per cento complessivo. Ci sono poi le Generali e la Pirelli, due società a loro volta partecipate da Mediobanca, che è azionista anche della divisione per le infrastrutture del gruppo Benetton, quella che pompa più soldi attraverso i pedaggi autostradali. Un conflitto d’interessi permanente sul quale, in apparenza, nessuno dei protagonisti della scena finanziaria né della politica trova nulla da ridire.
Molti di questi gruppi vivono quotidianamente grazie ai finanziamenti di Mediobanca, oppure ricorrono ai consigli, all’assistenza e all’influenza dell’istituto quando devono fare operazioni importanti, aumenti di capitale, acquisizioni e ristrutturazioni. Ma poiché sono anche azionisti nel nucleo di controllo, la banca non è indipendente nei loro confronti. Come potrà rifiutare di concedere un credito se non lo meritano o di garantire il buon esito di un aumento di capitale? Emblematico è il caso di Ligresti, il cui gruppo, con Premafin e la Fondiaria-Sai, è stato foraggiato per anni anche se era in profonda crisi.