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 2012  novembre 28 Mercoledì calendario

TRA LIGURIA E PIEMONTE A RISCHIO 6MILA ADDETTI

Livello d’allarme alto nel tessuto produttivo ligure e piemontese per le ricadute, tra Genova, Alessandria e Cuneo, del blocco delle lavorazioni dello stabilimento Ilva di Taranto. Sono oltre 2.600 i lavoratori diretti dei quattro poli produttivi dell’Ilva a rischio ripercussioni dopo lo stop nel sito pugliese, circa seimila se si considera l’indotto. Accanto a Cornigliano (1.780 addetti diretti e quasi 3mila di indotto), i due siti piemontesi di Novi Ligure (circa 800 addetti diretti, 1.150 considerando l’indotto) e Racconigi (poco più di 180 lavoratori) e infine il polo di Pratica, in provincia di Frosinone, di fatto in fermo produttivo (le lavorazioni sono state trasferite a Novi, con i circa 70 addetti in cassa integrazione) e in fase di riconversione. Tutti stabilimenti con lavorazioni a freddo collegate ai materiali prodotti a Taranto. Con il fermo di Taranto, dunque, l’intero ciclo produttivo si blocca. Proprio per questo dalla Fim-Cisl genovese arriva una proposta forte all’azienda: anziché chiudere, investire nella realizzazione di un laminatoio a caldo per i coils, che permetterebbe sia al sito ligure che a quelli di Novi e Racconigi di diventare autonomi rispetto a Taranto.
Intanto, però, a Genova la tensione è alle stelle. La fabbrica di Cornigliano è in assemblea permanente, di fatto occupata. «Siamo arrabbiatissimi - afferma Franco Grondona, segretario della Fiom - anche con l’azienda. Perché abbiamo chiesto, in attesa dell’incontro romano di domani, di sospendere il preavviso di chiusura del sito annunciato nelle scorse ore. Ma l’azienda ha risposto di no. Qui, comunque, potremmo lavorare al massimo per altri cinque giorni». Antonio Apa, segretario della Uilm, sottolinea, poi, che la convocazione a palazzo Chigi, per domani, non è stata «sufficiente a calmare la rabbia dei lavoratori, che vedono messo in discussione il posto di lavoro».
Grande preoccupazione arriva anche da Confindustria Genova. «Con la chiusura di Taranto - afferma il presidente, Giovanni Calvini - si crea un problema enorme per il tessuto ligure. E, tra l’altro, si colpisce uno stabilimento che nasce da una riconversione industriale (la chiusura delle lavorazioni caldo, ndr) e su cui l’imprenditore ha investito 600 milioni per creare nuove linee di laminatura a freddo. Genova è un modello e rappresenta la prova del fatto che, quando il gruppo Riva prende un impegno, lo rispetta. Non vedo perché questo non possa accadere anche a Taranto, dando attuazione all’Aia». Proprio sugli investimenti di Riva a Genova si sviluppa il ragionamento di Claudio Nicolini, segretario della Fim. «Il sito di Cornigliano - afferma - è diventato un piccolo gioiello della siderurgia. Inoltre è dotato di grandi spazi. Anziché chiuderlo, si potrebbe investire ancora, realizzando un grande laminatoio a caldo, che sarebbe in grado di lavorare bramme e billette, importate non necessariamente da Taranto, e di garantire l’autonomia sia alla fabbrica genovese che a quelle di Novi e Racconigi».
Il polo di Novi Ligure, in particolare, rappresenta il secondo, per importanza e volumi, del Nord Italia, dopo Genova. «Nel sito di Novi abbiamo una autonomia "polmonare" di circa tre settimane – spiega Giorgio Airaudo, segretario regionale della Fiom – mentre a Racconigi l’autonomia arriva a un mese. Bisogna intervenire in fretta visto che l’azienda non è in grado di garantire il processo produttivo. Serve un’azione forte del Governo, anche a costo di commissariare Ilva come accade in Europa in casi come questo, per tutelare produzione e lavoro».
La preoccupazione rimbalza dal mondo sindacale a quello industriale. «Temiamo forti contraccolpi dal blocco delle lavorazioni a Taranto – sottolinea il direttore di Confindustria Alessandria, Fabrizio Riva – sul polo alessandrino che rappresenta la principale azienda nel comparto metalmeccanico. C’è molta apprensione di fronte ad un esempio di cultura antindustriale come quello che emerge dai fatti di Taranto».
A tenere alta l’attenzione, in particolare, è tutta l’industria metalmeccanica piemontese, compreso il settore automotive a cui è destinata buona parte della produzione del sito Ilva di Novi. «La chiusura dell’Ilva – sottolinea Amilcare Merlo, ad e presidente del Gruppo Merlo e vicepresidente di Confindustria Cuneo – e il rischio di perdita della produzione di acciaio in Italia rappresenta un danno enorme in termini di perdita di know-how che un paese manifatturiero e di trasformazione come il nostro non può permettersi. Senza considerare poi l’impatto disastroso sulle imprese del possibile aumento dei costi dei prodotti metalmeccanici. Il rischio, davvero, è che le nostre imprese vadano fuori mercato». Novi e Racconigi ospitano, in particolare, lavorazioni a freddo per la trasformazione dei coils dello stabilimento pugliese in laminati e, nel sito alessandrino, sono per lo più destinate al settore dell’automotive e a quello del bianco. Nel cuneese si producono, invece, tubi saldati.
«Abbiamo calcolato – afferma il presidente di Federcacciai, Antonio Gozzi – che i 5 milioni di prodotti piani che l’Ilva verticalizza nell’economia Italia potrebbero subire un rincaro dai 50 ai 100 euro la tonnellata. Il che significa, con la chiusura dello sito, una fattura, per il Paese, tra i 2,5 e i 5 miliardi, per l’importazione di prodotti sostitutivi di quelli dell’Ilva. Quasi una finanziaria».