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 2012  novembre 28 Mercoledì calendario

I BARRICATI NELLA CITTÀ-FABBRICA: IN BALIA DELLE ONDE, MA RESTIAMO - TARANTO

Dal nostro inviato «Scinn’ abbascie, ricchio’!». L’urlo dell’operaio al di qua dei tornelli che separano l’Ilva dal resto del mondo è rivolto al collega il cui viso sorridente fa capolino da una finestra del terzo piano, quello inaccessibile della direzione, un corridoio scialbo con una serie di uffici e in mezzo la sala riunione tappezzata dalle gigantografie dell’acciaieria illuminata dai mille colori del cielo di Taranto. Sono le nove del mattino. I badge disattivati e le voci ansiogene che si rincorrono («hanno bloccato i conti correnti della famiglia Riva, questo mese restiamo senza stipendio»). Mariano Maugeri
G li operai sciamano dentro la fabbrica insieme ai cani randagi che non hanno neppure un nome e da sempre sono aggregati alla truppa. Potrebbe essere un giorno di festa, una manifestazione tipo "fabbriche aperte" ma la tensione è spessa come bramme d’acciaio. Le scale della palazzina che ospita la direzione sembrano quelle dei grandi magazzini nell’ora di punta. Ci si spintona per salire e scendere mentre dal piazzale interno arriva il botto di tre petardi che esplodono in successione. Tutti aspettano Adolfo Buffo, il neodirettore dell’acciaieria raggiunto lunedì mattina da un avviso di garanzia. «Siamo in balìa delle onde» si lascia andare Carmelo Garibaldi. I lavoratori del primo turno (dalle 7 alle 15) si mescolano con quelli del turno notturno che non vogliono saperne di andarsene a casa. Vincenzo Mercurio, coordinatore dell’Usb, il sindacato di base, ha gli occhi gonfi per la notte insonne passata in fabbrica: «Io da qui non mi muovo», dice con lo sguardo diffidente di chi si prepara al peggio. I badge che girano a vuoto sono interpretati come un disimpegno dei Riva e dei dirigenti che fino a ieri hanno governato lo stabilimento. Mai era accaduto che chiunque potesse entrare e uscire indisturbato da una fabbrica blindata per evidenti motivi di sicurezza. S’insinua la paura dell’anarchia, di un padrone fantasma che molti, anche se sottovoce, danno in procinto di abbandonare Taranto. Giuse Alemanno, operaio e autore con Fulvio Colucci di un libro intitolato "Gli invisibili", prende a braccetto il cronista e lo conduce nel suo reparto, il Mue, macchine utensili e affini, un capannone lungo più di un chilometro che sembra il ventre di una balena: «Questa è una delle officine meccaniche più efficienti e innovative in Europa» scandisce Giuse mentre una porticina gialla introduce in un guscio di lamiere sormontato dai carriponte dal quale oscillano ganci massicci. Le frese sono in scala con il resto, così i trapani della Skoda color verde reseda alti come una palazzina di due piani. Giuse, un fisico da rugbista e i capelli bianchi che sfiorano le spalle, ha la parlantina sciolta: «Questo Paese deve fare una scelta: o decide che l’acciaio è strategico oppure decreta per l’Ilva lo stesso epilogo della chimica». Duecento metri più in là i lavoratori "Liberi e pensanti" fendono la folla con un camioncino. Sono in quattro e dentro i megafoni urlano a squarciagola: «I padroni dell’azienda siamo noi, i padroni dell’azienda siamo noi». Buffo finalmente arriva ed è accerchiato da almeno duemila operai. Rassicura tutti. Garantisce che non c’è alcun rischio per gli stipendi. Almeno fino a quando non sarà noto l’esito del ricorso presentato dai Riva contro la Procura per il sequestro di quattro mesi di produzione di laminati e coils pronti a partire dal porto di Taranto. Fuori dalla fabbrica non è che le cose vadano meglio. Anzi. I francesi di Teleperformance (si veda Il Sole 24 Ore del 26 settembre), la multinazionale che al quartiere Paolo VI gestisce un call center con oltre 2 mila occupati, il 70% donne, molte delle quali mogli o compagne degli operai dell’Ilva, forse per coincidenza, forse no, ha convocato ieri una conferenza stampa che ha un tema di fondo non proprio esaltante. «Il nostro gruppo è presente in 51 Paesi al mondo. Dappertutto siamo in attivo tranne che in Italia. La colpa? Non possiamo competere con la criminalità organizzata, che come mostrano le recenti operazioni della Guardia di finanza si è infiltrata in molte aziende concorrenti», dice l’amministratore delegato Lucio Apollonj Ghetti. Che con malcelato disappunto cita gli arresti ai vertici della società Blu call e l’irruzione delle Fiamme Gialle in un call center di Avellino dove lavoravano 112 dipendenti in nero. La riflessione non è per nulla rassicurante: «Aver rispettato le regole ci è costato una perdita di 27 milioni e un mancato reddito per i dipendenti tarantini (tutti in regime di Cig in deroga a 250 euro al mese, Ndr) di sette milioni». Un’affermazione che precede l’aut aut: «O il governo è disposto a trovare soluzioni rapide, oppure entro Natale abbandoneremo Taranto e l’Italia».