Francesco Manacorda, la Stampa 28/11/2012, 28 novembre 2012
LA FORMULA DEL RAGIONIERE FAMIGLIA, TONDINI DI FERRO E FINANZIAMENTI AI PARTITI
Non mi sembra che lo Stato abbia fatto un brutto affare a cedermi l’Ilva». Così parlava, già nel lontano 2000, il ragioner Emilio Riva da Milano mettendo a confronto le tasse pagate dal suo gruppo alle perdite pregresse dell’acciaio pubblico. Cinque anni prima il «ragiunatt», classe 1926, nato e cresciuto professionalmente tra i rottami di ferro della ditta Colombo dove entra quindicenne da fattorino ed esce da azionista al 30% - ha fatto il grande salto che porterà la sua Riva & C. tra i grandi gruppi della siderurgia mondiale. L’Iri mette in vendita la vecchia Italsider di Taranto, depurata dai debiti e trasformata nella Ilva Laminati piani, che con cinque altoforni può produrre fino a 12 milioni di tonnellate l’anno. «All’Ilva - ricorda Gianni Dragoni in un ebook appena pubblicato da Chiarelettere - Riva entra in possesso di un gruppo con impianti nuovi che in seguito al boom dei prezzi produce utili al ritmo di 100 miliardi di lire il mese: è il terzo produttore in Europa di laminati piani dietro giganti quali la francese Usinor Sacilor e l’inglese British Steel».
E’ il punto più alto di una parabola fino a quel momento tutta ascendente. Quel ragioniere che sostiene di non aver mai ritirato il diploma perché «costava 13 mila lire» che potevano essere più utilmente investite, come ricorda in un’intervista al Sole 24 Ore, incarna il sogno dell’Italia del boom meglio di quanto possa fare qualsiasi saggio accademico. Nel dopoguerra, in un Paese pieno anche di residuati bellici, Riva naviga alla grande: proprio un sommergibile da 200 tonnellate affondato davanti a Termoli - ricorda - è il primo grande affare: «Guadagnammo 70 milioni e 7 finirono nelle mie tasche visto che in quel periodo possedevo il 10% della Colombo». Poi, all’alba degli Anni 50, il boom edilizio e la Colombo entra nel business del tondino di ferro per il cemento armato. Via verso Brescia, anche se poche cose innervosiscono Riva, nato a Brera, più che essere definito bresciano.
Ma il vero salto avviene nel ’54, quando Emilio si mette in proprio assieme al fratello Adriano e fonda la Riva & C. La scommessa è quella di trasformarsi da fornitore di rottame alle acciaierie a produttore autonomo. La data del primo forno elettrico, 7 marzo 1957 a Caronno Pertusella, provincia di Varese, rimarrà segnata nel calendario Riva come la ricorrenza più importante, celebrata ogni anno. Il gruppo si espande e cresce anche all’estero: Spagna e Francia, Belgio e - dopo il crollo del muro - anche l’ex Germania Est, mentre al tondino si è già affiancata da tempo al produzione di laminati piani. Nella Riva Fire, la holding il cui acronimo significa ovviamente Finanziaria Riva Emilio, ci sono oltre al patron anche i figli Fabio - l’erede designato Claudio, Nicola e Daniele, i nipoti - figli di Adriano - Cesare e Angelo, tutti in posizioni dirigenziali. Nell’azionariato, ma non in azienda, invece, le due figlie Alessandra e Stefania. Negli ultimi anni entra anche la terza generazione.
L’uomo abituato a far fruttare i rottami di ferro mette a profitto anche la rottamazione dell’industria di Stato. Nell’88 Riva si aggiudica la maggioranza delle genovesi Acciaierie di Cornigliano dall’Italsider. Chiuderà l’altoforno nel 2005 ottenendo nel nuovo accordo con la Regione anche un’estensione fino al 2065 della concessione per l’area demaniale, preziose banchine portuali comprese. Anche l’operazione Ilva appartiene, come è ovvio, alla partita delle privatizzazioni. Nell’ultimo esercizio, quello del 2011, il gruppo fattura oltre 10 miliardi di euro e ottiene un risultato netto di 327 milioni, dopo due anni di perdite.
Non di solo acciaio vive comunque Riva. Il Fatto Quotidiano ha ricostruito le donazioni, del tutto legittime, alle forze politiche dell’imprenditore: 98 mila negli scorsi anni a Pier Luigi Bersani e 245 mila tra il 2006 e il 2007 a Forza Italia. E proprio sotto il governo Berlusconi, nel 2008, Riva entra con un ruolo di rilievo nella cordata dei «patrioti» che investono in Alitalia. Sborsa 120 milioni e diventa il primo azionista italiano, con oltre il 10%, dopo Air France che ha il 25%.
Il resto è cronaca, soprattutto giudiziaria, degli ultimissimi mesi. Comprese le schermaglie sul fatto se l’Ilva sia stata o meno un buon affare per i suoi padroni privati. Il 19 ottobre una nota della società afferma che «dal 1995... non è mai stato distribuito alcun dividendo e tutti gli utili sono totalmente stati reinvestiti nell’ammodernamento tecnologico degli impianti». Ma questo non vuol dire che da Taranto al quartier generale dei Riva non sia transitato nemmeno un centesimo. Anzi, come rivela l’Espresso una settimana dopo, l’1,3% dei ricavi consolidati del gruppo siderurgico finisce per contratto in consulenze alla holding Riva Fire. Unica eccezione: se l’Ilva non raggiunge un margine lordo positivo, allora le consulenze scendono allo 0,65% del fatturato. E’ comunque abbastanza per assicurare - fonte la stessa Ilva - 253 milioni nei soli quattro anni che vanno dal 2008 al 2011, sebbene la società assicuri che la famiglia non ha incassato dividendi da Riva Fire.