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 2012  novembre 28 Mercoledì calendario

I RAGAZZI DELLA FABBRICA “I PADRONI SIAMO NOI”


ORMAI le città sono due. La Taranto delle persone, e quella dell’Ilva. E come se non bastasse, proprio ora la Taranto delle persone è stata dichiarata la città più invivibile d’Italia. L’ingresso della Direzione dell’Ilva – un luogo tanto meno solenne ma assai più influente del Municipio cittadino – era sconsacrato ieri da un lenzuolo con su scritto: “Senza lavoro, nessun futuro”. Dentro, la mattina, lo slogan gridato dal grosso corteo di operai che avevano lasciato i loro posti per radunarsi in quello spazio padronale era: “I padroni dell’azienda siamo noi!”.

C’ERA il furgone dei “Liberi e pensanti”, c’erano soprattutto gli operai della Movimentazione Ferroviaria. Loro sono i compagni di Claudio Marsella, di Oria, 29 anni, locomotorista, si chiama così, morto lo scorso 30 ottobre col torace schiacciato durante la manovra di aggancio di un carro. Lo avevano trovato agonizzante, perché all’Ilva per quel lavoro pesante e pericoloso si era lasciato solo un operaio per turno. Quella notte c’erano stati altri due “incidenti” gravi, un operaio ustionato, uno intossicato dal gas. Oggi qualcuno ricorda quella giornata, la protesta dei compagni di lavorazione cui si era unito il sindacato di base, l’assenza di troppi altri, per non dire della città. Bisognava continuare con lo sciopero, dicono anche, come stanno facendo a Genova. Io sono qui, dice uno, anche se è il mio compleanno, e tira fuori la carta d’identità per provare che è vero. È vero, ha 37 anni, se ne ricorderà di questo compleanno, gli dicono, tanti auguri. Per un momento, le facce serie serie si fanno allegre. Sono serie anche le facce dei carabinieri e dei poliziotti in borghese che stanno anche loro a far capannello sul marciapiede: se non lo dicessero, sembrerebbero piuttosto operai. Polizia da disordine pubblico non ce n’è, se non in qualche blindato parcheggiato distante, ma non ce n’è bisogno. È tutta un’altra aria.
A mezzogiorno di ieri, all’ingresso della Direzione dell’Ilva, occupata e già disoccupata, e ora presidiata da capannelli di operai e di intervistatori di operai, ho pensato di trovarmi di fronte a una ricapitolazione della storia del capitalismo. C’erano gli operai, buttati più o meno sul lastrico alla vigilia — “messi in libertà”, notevole espressione. Migliaia di messi in libertà, un’amnistia generale, un giubileo alla rovescia. C’era lo strato della famosa polvere rossa, accumulata sulle sbarre dei cancelli, su cui passare il dito e guardarsi attoniti il polpastrello arrugginito. Il capitalismo, sia detto senza offesa, spreme e scarta e impesta: ma qui, in questa istantanea di mezzogiorno di un giorno di novembre senza qualità, c’è qualcosa di più e di peculiare, che riguarda il rapporto fra il capitalismo e i capitalisti. I quali sono in galera, o in fuga dalla galera, o appena di qua dalla galera, il vecchio padrone e i suoi figli, i suoi manager, i suoi faccendieri — e poi i suoi uomini di vetrina, già prefetti, già candidati del centrosinistra, già. Forse la siderurgia, che era già finita tristemente a Bagnoli e agonizza a Piombino e fa agonizzare Trieste, sta tirando le cuoia oggi a Taranto e a Genova e nelle altre filiali italiane, in un disastro che non risparmia nessuno, compresi i burattinai, impigliati nei loro fili.
La lavorazione dell’area calda era interdetta dai magistrati, salvo il minimo necessario alla tenuta degli impianti. Invece si produceva come se niente fosse, anzi. «Il materiale è sempre arrivato, al Terzo Sporgente, e fino a ieri si facevano gli straordinari.
Dovevamo bloccarla noi, la spedizione, prima della magistratura». Lunedì, quando l’ennesimo e drastico ordine della magistratura ha bloccato il materiale prodotto contravvenendo al sequestro, c’erano quattordici navi in attesa d’essere caricate, e sono lì, inutili. Dicono, gli operai dichiarati inutili: «Sono mesi che andiamo a lavorare, sapendo che cosa ci aspetta, non sapendo niente di che cosa ci aspetta, come se ogni giorno in più fosse un giorno guadagnato. Con questa sensazione di assurdità». Sono giovani, all’Ilva, figli di pensionati e prepensionati, sì e no 35 anni di età media, non è questione di guadagnare giorni o di pensionarsi in anticipo. Dicono che ai padroni interessa solo di tirare avanti. Che investono solo per il ripristino delle macchine, che continuino a produrre. Il resto, che vada in rovina. Ci sono sette caricatori al porto, i più moderni risalgono al 1982. E i capannoni di stoccaggio, ci piove, sui rotoli a freddo che non si dovrebbero bagnare. Dove vuole andare un’azienda che pensa solo alle tonnellate, che non si preoccupa dello stoccaggio dei suoi prodotti e li manda così ai suoi clienti nel mondo?
A Taranto non si sa se il mare circonda la fabbrica, o la fabbrica accerchia e soffoca il mare. L’odore del mare sì, è stato rotto e sgominato da quello dell’Ilva. Ma il mare, i famosi due mari di Taranto, si insinua continuamente nei pensieri e nelle frasi delle persone. Sono qui dentro da vent’anni, che cosa andrò a fare? Le cozze sono amare, i pesci impiombati. («La cozza è la cattiva coscienza di Taranto… »). L’azienda è allo sbando, dicono. È come nella stiva di un peschereccio, coi pesci tirati in secco e boccheggianti e però quelli grossi continuano a mangiare quelli piccoli.
Sono molto arrabbiati, gli operai. Forse per questo non è successo niente, ieri. Non è successo nemmeno, però, che la direzione e i capi li abbiano spinti a fare casino di strada, rifocillati dall’azienda e col salario pagato, come in qualche incresciosa giornata di primavera. Forse i padroni se lo aspettavano, dopo la messa in libertà, forse non sanno più che pesci pigliare, o sono gli operai a non abboccare. Per la prima volta, dicono, anche ai capi è stato fatto sentire che se ne vanno a casa, e il badge
è stato staccato anche agli impiegati. La confusione è grande. Stamattina, agli operai che hanno occupato il territorio della direzione, i sindacalisti hanno comunicato che ai “messi in libertà” saranno pagate le giornate fino alla decisione del riesame, aspettata per martedì prossimo. Rumori, qualche petardo, poi l’uscita. Amarezza di molti, ai quali sembrava che si fosse accettata una mancia. «Perdiamo il posto di lavoro, e ce ne torniamo a casa per qualche giorno di salario». Confusione. I badge, dicono, erano stati cambiati di recente: se lo aspettavano già. «A qualcuno il badge non marca, a qualcuno sì. A qualcuno dell’area a freddo hanno detto di venire, ma a fare che cosa? Ai più non hanno detto niente. Dicono che chi ha ferie da fare se ne sta a casa, chi non ne ha entra: poi chiamano chi ha 200 ore di ferie, e lasciano fuori chi ne ha 20».
Sono già cominciate le ritorsioni, dicono. Domani, giovedì, c’è l’incontro romano con un governo che più latitante di così non si potrebbe, e corrono voci diverse sulla partecipazione degli operai. Qualche sindacalista trascrive i nomi di chi andrà a Roma, come se si trattasse di una delegazione ristretta. Hanno detto che al massimo ci saranno dieci pullman, dice qualcuno, e dieci pullman sono appena 500 persone. Dev’essere un desiderio del governo, che non facciamo troppo rumore. Noi, dice Francesco B., delegato Fiom, ci auguriamo che venga il maggior numero. «Tanto — dicono — se fanno i furbi, veniamo con la nostra auto. Essere o non essere a Roma, è decisivo. Non a fare i vandali, a mostrare che ci siamo, e con quelli di Genova e tutti gli altri». Essere o non essere, è decisivo.
All’Ilva come alla Fiat, la domanda è se non aspettino che un alibi — il sequestro dell’area a caldo qui, la Fiom là — per andarsene. Nel frattempo, grattano il fondo del barile. Ieri, quando rientravano i 19 di Pomigliano, i 5mila di Taranto uscivano: usati tutti come ostaggi di gare e rese dei conti altrui, concorrenze economiche, impunità giudiziarie, fine dei diritti. Si capisce che rabbia e demoralizzazione vadano assieme. A chiedergli quanti sono gli operai che ormai si augurano, o sono rassegnati, che la fabbrica chiuda, rispondono all’unisono: Nessuno. Qualcuno, aggiungono risentiti, che si sta assicurando il suo vantaggio privato. Non c’è oggi, qui almeno, alle porte della città d’ombra che vuole ingoiare l’altra, la contrapposizione fra lavoro e salute, e nemmeno la loro alleanza. Chi chiede se abbiano votato per le primarie si sente mandare a quel paese. Quelli si tengono alla larga da noi, dicono. Nessuno dice che i candidati al ballottaggio dovrebbero misurarle anche su questo marciapiede le loro intenzioni: in effetti dovrebbero, credo. Ci sono tribune che vale la pena di frequentare, anche se promettono fischi. I fischi possono essere la premessa di una riaffezione alla buona politica.