Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 28 Mercoledì calendario

PATRIMONIO DA DIFENDERE

Nel giorno in cui l’Ocse rivede al ribasso le stime sul Pil (-2,2% nel 2012, mezzo punto in meno rispetto alla precedente previsione), la situazione dell’Ilva di Taranto che precipita assume la fisionomia del cataclisma. Le proiezioni dello stop dello stabilimento sul Pil sono pesantissime. Tra 5,7 e 8,2 miliardi per gli ottimisti, cioè fino a mezzo punto di Pil perduto. Ancora peggio per i pessimisti.
Sull’economia locale l’impatto sarebbe insostenibile: 12 mila dipendenti diretti a Taranto, 7 mila persone che lavorano nei servizi dell’indotto, quasi 20 mila famiglie con il reddito azzerato o decimato. L’8% della ricchezza prodotta in Puglia ogni anno perduta. Un impatto sociale devastante.
Poi ci sono le conseguenze sul resto del gruppo, l’effetto trascinamento su Genova (1600 dipendenti), Novi Ligure (800), e poi Marghera, Patrica, Racconigi. Senza contare le ricadute sulla credibilità – sempre traballante – del nostro sistema Paese sugli investitori esteri. Per farsi un’idea dell’assurdità di questa situazione, la chiusura di Taranto avrebbe effetti economici sulla ricchezza nazionale paragonabili a quelli che potrebbe avere sulle imprese il terremoto in Emilia della primavera scorsa (le stime sono ancora provvisorie). Ma i terremoti non dipendono dagli uomini, il destino di Taranto sì. Si è detto e ripetuto in questi mesi: il caso dell’Ilva è particolarmente sconcertante. Questo perché è la conseguenza di una decisione sociosanitaria della magistratura.
Una decisione che sta tra l’emotività e l’ideologismo, lussi intellettuali che un potere fondamentale dello Stato non dovrebbe permettersi, e che sicuramente non può permettersi una comunità. Il punto non è se i laminati sequestrati siano frutto di un reato, ma come uscire da una situazione estremamente complessa, dove la gradualità dell’azione di risanamento ambientale non potrà non avere dei residui costi anche sanitari. E questo è ovvio. In questi mesi di dibattito è cresciuta una retorica che denuncia una specie di bipolarismo quasi esistenziale per Taranto e il suo stabilimento siderurgico, fabbrica o morte. Una estremizzazione così drammatica va ricomposta.
E il blocco dei laminati da parte del gip non va certamente in questa direzione.
D’altra parte anche la proprietà deve trovare una strada diversa. La chiusura dello stabilimento come ritorsione rischia di diventare un boomerang. Rischia di dare nuovo carburante ideologico a tutti quelli che sulla vicenda Taranto - anche a causa delle titubanze del governo - stanno imbastendo un’operazione dal forte retrogusto elettorale, e senza nessuno scrupolo nei confronti della città e delle 20 mila persone coinvolte dalla chiusura. I Riva devono far valere il loro punto di vista in modo coerente e riflessivo, ma senza forzature, neanche tattiche. Domani c’è un incontro a palazzo Chigi convocato dal governo, ed è quella la sede per cercare una soluzione praticabile. Da questo incredibile ricatto anti-industriale si esce solo difendendo con serietà e responsabilmente le ragioni dell’industria. Non ci sono alternative.