Antonella Mariani, Avvenire 28/11/2012, 28 novembre 2012
CONSERVO TUTTO
I vestiti di quando si era bambini? Non si buttano, un giorno potrebbero tornare utili ai nipoti. I biglietti del cinema del tempo del liceo? Guai a gettarli, sono un ricordo. Le pubblicità degli studi medici, poi, meglio conservarli in ingresso, casomai venisse il mal di denti. L’ombrello che non si apre più si tiene in vista, se per caso bussasse l’aggiustatutto. E quel paio di scarpe sfondate, che spreco infilarlo nella spazzatura!
Collezionismo estremo, attaccamento agli oggetti: chi non conosce qualcuno così legato alle cose da riempire la casa di cianfrusaglie, oggetti inutili, carte inservibili? E se all’apparenza può sembrare un tic innocuo, un passatempo un po’ ridicolo ma tutto sommato innocente, be’, si sappia che invece il disturbo da accumulo può diventare, nei casi più gravi, una vera e propria patologia. Il nome clinico c’è già – disposofobia oppure, in inglese, hoarding – e negli Stati Uniti si sta pensando di inserirlo nella classificazione dei disturbi mentali. La difficoltà, per chi soffre di questa turba, è proprio la separazione dagli oggetti, siano scatole di cioccolatini vuote, scontrini del supermercato o sedie sfondate: ognuno ha la sua piccola storia, la sua personale caratteristica che lo rende unico. E così insostituibile da non potersene privare.
Tra normalità e anormalità il confine è sottile: la tendenza, assai comune, ad accatastare diventa un vero e proprio disturbo quando «causa disagio e interferisce con la capacità di vivere serenamente», diagnosticano Randy O. Frost e Gail Steketee , due tra i massimi esperti di accumulo compulsivo, in
Tengo tutto della Erickson (pagine 272, euro 15,50). Il libro è un inquietante viaggio nelle case e nella psiche di accumulatori cronici americani e del loro percorso verso la guarigione (sono gli stessi che gli italiani possono vedere sul canale Real Time nella serie Usa dal titolo ’Sepolti in casa’). C’è la storia dei fratelli Collyer, uno dei quali morì letteralmente travolto dalle montagne di giornali e cianfrusaglie stipate nella loro palazzina di Harlem, dalla quale in seguito furono rimosse 170 tonnellate di materiali di tutti i tipi, inclusi 14 pianoforti a coda e una Ford modello T. Da questa vicenda, che allucinò la New York degli anni Quaranta, iniziarono gli studi sugli accumulatori compulsivi, che oggi, secondo l’analisi di Frost e Steketee, sono tra il 2 e il 5 per cento della popolazione americana.
La maggior parte di loro non arriva ai limiti estremi dei fratelli Collyer, perché riesce a gestire gli spazi o ha abbastanza risorse economiche da prendere in affitto altri locali come magazzini o garage (a proposito: il boom dei depositi in affitto in America ha a che vedere anche con questo…). Ma la mania da accumulo a un certo punto può limitare fortemente la vita e le relazioni con i familiari. Irene, ad esempio, ha divorziato dal marito proprio perché lui non ne poteva più delle cianfrusaglie che riempivano la loro casa. Irene conservava tutto ciò con cui veniva in contatto: volantini pubblicitari, riviste e giornali, manuali di istruzioni di giocattoli ormai rotti.
La sua casa era un ammasso caotico di vestiti, contenitori usati, libri, scatole di cartone, pezzi di elettrodomestici, videocassette, assemblati in pile che disegnavano passaggi strettissimi da una stanza all’altra. Irene aveva bisogno di vedere le sue cose, temeva che, se le avesse riordinate, si sarebbe dimenticata di averle. Tutto le sembrava ugualmente indispensabile; ecco perché era necessario avere ogni oggetto a portata di mano. La guarigione di Irene iniziò quando i terapeuti la aiutarono lentamente a prendere decisioni riguardo a ciascun singolo oggetto, convincendola che non sarebbe stato uno spreco gettarlo. Ci vogliono anni, ma ci si può liberare dal rapporto troppo ossessivo con le cose, così come faceva Andy Warhol– anche lui collezionista estremo di cianfrusaglie – riempiendo le sue oltre 600 ’capsule del tempo’ con tutto ciò che trovava ammassato sulla sua scrivania.
La mania da accumulo può avere qualche variante: ci si può riempire la casa di acquisti inutili (è lo shopping compulsivo), di spazzatura e oggetti recuperati dai bidoni dell’immondizia altrui, oppure di animali (le gattare, ad esempio). In Italia il fenomeno è approfondito da una quindicina di anni, proprio sulla scia degli studi di Frost e Steketee, e colpisce nella stessa percentuale che in America, o forse anche di più. Si narra di una nota cantante veneta, oggi anziana, che dopo aver riempito tre ville, affittò l’hangar di un aeroporto per stiparci tutti i giornali che negli anni ruggenti avevano parlato di lei.
«La differenza con gli Stati Uniti è che da noi non se ne parla molto. Il tema emerge quando c’è qualche allarme di carattere sanitario: ad esempio quando i vicini segnalano un anziano che accumula spazzatura oppure oggetti raccolti dai cassonetti o dalle discariche, o una persona che ricovera in casa sua decine di gatti…», racconta da Padova Ezio Sanavio, docente universitario, curatore della presentazione di Tengo tutto e a sua volta terapeuta di un buon numero di disposofobici. Sulle cause c’è ancora nebbia: un fattore ereditario (molti maniaci dell’accumulo hanno avuto genitori come loro), oppure genetico. E quasi sempre il disturbo emerge in età adulta, quando ’tenere tutto’ inizia ad avere conseguenze moleste sul portafogli e sulle relazioni sociali.