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 2012  novembre 28 Mercoledì calendario

SCUSA SE TI CHIAMO AMORE (ALL’AEROPORTO)


Il concetto di «società dei consumi» deve la propria popolarità a un saggio omonimo del sociologo francese Jean Baudrillard. In esso Baudrillard prende le mosse dall’analisi di alcuni accessori e orpelli inutili inventati dal capitalismo al solo scopo di rinnovare, per renderla nuovamente desiderabile, la merce. Su quegli esempi costruisce poi la teoria principale del libro, e cioè che l’induzione a desiderare il superfluo stava definendo in misura sempre maggiore la nostra società. A detta di Baudrillard, il migliore e più efficace esempio di orpelli inutili del capitalismo sono i tergicristalli a due velocità. Uno è più che sufficiente. A chiunque abbia mai guidato nella pioggia è evidente che Baudrillard ha preso una cantonata. È anche evidente che ciò non inficia la sua teoria; rivela, però, in quale misura essa dipenda dalle circostanze della vita del sociologo: dai suoi gusti, dalle sue abitudini, dagli automatismi mentali della sua epoca. Lo stesso, credo, si può dire dei non-luoghi. Il concetto di non-luogo è tanto utilizzato quanto, in fondo, generico. È stato introdotto nella sua accezione più diffusa nel 1992 dal sociologo francese Marc Augé. Sappiamo che si riferisce alle grandi costruzioni geometriche del tardo XX secolo, con i pavimenti di un grigio continuo e le vetrate a parete intera che rispecchiano i flussi delle merci e delle persone: aeroporti, supermercati, alberghi. Sappiamo che è vagamente dispregiativo, e sembra indicare una mancanza di individualità e di "abitabilità" di un certo posto; una sua inadeguatezza a offrire esperienze ed emozioni pienamente umane. Come Baudrillard, anche Augé ha bisogno di un esempio principe per illustrare la sua teoria: e sceglie gli aeroporti. Sembra un buon esempio. Paragoniamo Fiumicino alle chiese rupestri della Basilicata, o alle mille ombre di terra rossa dei vecchi condomini romani, e subito ci pare di aver perso qualcosa, di vivere in un’epoca grigia e serva del denaro in cui gli architetti non pensano più a noi. Gli aeroporti, scrive Augé, sono «simili a terre desolate, a cantieri»: sono «l’incrocio di migliaia di itinerari solitari». Su questo, sulla solitudine di chi li attraversa, è definita la caratteristica principale dei non-luoghi: la loro indifferenza rispetto all’identità personale e relazionale dei loro utenti. Chi è in un aeroporto, secondo Augé, «si riduce a ciò che prova in quanto passeggero»; non ha rapporti umani, ma «interagisce solo con testi o istituzioni (linee aeree, polizia, ecc.)». La definizione di Augé fa leva, in maniera credibile, su una grande paura dell’uomo contemporaneo: la paura dell’omologazione schiacciante, della standardizzazione, della riduzione a cifra. Il suo argomento però mostra un risvolto ancor più angoscioso di questa omologazione (di per sé, anche gli anfiteatri romani erano piuttosto standard): essa nasce dalla nostra solitudine, e va a rafforzarla, offrendo un luogo specifico (il non-luogo, appunto) in cui la solitudine e l’assenza di identità sono condizioni necessarie e incoraggiate. Certo, la distinzione di Augé visivamente funziona: San Pietro in Vincoli è un luogo; Orio al Serio un non-luogo; nella prima diciamo «sì, lo voglio» alla persona amata, nel secondo tutt’al più lo bofonchiamo a chi ci chiede se preferiamo il finestrino. Non sono sicuro che sia così. La prima volta che ho volato da Orio al Serio era l’inverno» del 2002; ero coi miei due migliori amici, andavamo a festeggiare il Capodanno ad Amsterdam. Il volo, come è ovvio, era in ritardo. Terminato il check-in abbiamo comprato sei costosissime lattine di Moretti all’Autogrill e ci siamo seduti sul muricciolo obliquo di marmo che lungheggia la facciata principale dell’aeroporto. Abbiamo ingannato l’attesa bevendo birra mentre il sole tramontava sul parcheggio di Orio al Serio, nell’orizzonte smerigliato dalle esalazioni della Milano-Venezia. Era il nostro primo viaggio del genere; ci sentivamo liberi, sguaiati e vivi; ci sentivamo pienamente cittadini europei, di un’Europa unita dall’Erasmus e da Ryanair più che dai trattati che avevano reso entrambe le cose possibili. Ci sentivamo vicini, in un modo in cui non ci saremmo sentiti più – Marco è andato a studiare a Londra, Caterina si è trasferita a Lisbona, e così via. Ancora oggi ogni volta che prendo un volo da Bergamo non riesco a non ripensare a noi e a quella sensazione di comunità e di avventura: una sensazione banale, certo, ma proprio per questo caratteristica di una generazione, condivisibile, come le lacrime al matrimonio e le angherie della naja. È un’emozione che provo anche oggi. Sì, e meno di due anni dopo si concludeva una lunga estate che avevo passato con una ragazza statunitense, in giro per l’Italia. Ci dicevamo che avremmo continuato a vederci, e sapevamo di mentire. L’ho accompagnata a Ciampino e per due ore non abbiamo parlato. Ho messo le sue valigie sul nastro mentre lei dava la busta coi documenti al check-in. La hostess ha studiato i passaporti e mi ha guardato, «Manca il suo documento», mi ha detto. Non sapevo cosa dire: io restavo in Italia. Però ero a Berlino nell’inverno del 2009, il più rigido degli ultimi vent’anni, con temperature sotto i meno venti. Avevo prenotato un volo il pomeriggio del 24 dicembre per passare il Natale in famiglia a Milano, ma una volta a Schönefeld, dopo una lunghissima coda, ho scoperto che per due o tre giorni Easyjet non avrebbe volato. Eravamo in molti in quella situazione, e con il drappello di disperati al banco reclami abbiamo organizzato un cenone improvvisato a casa mia. È stato un buon Natale. E a marzo scorso, per caso, ho ritrovato una ragazza che era con noi quella vigilia, in un bar vicino al canale di Kreuzberg. «Buon Natale!», le ho detto quando l’ho vista. «Buon Natale!», mi ha risposto lei. Questi ricordi, oltre che un po’ patetici, non sono molto originali: a moltissime persone sono capitate cose simili. Chi per un periodo più o meno lungo ha vissuto all’estero, o in quella ridotta dell’estero che è l’Unione europea, ne avrà un’infinità, legati alle emozioni più disparate; ma basta aver fatto un viaggio importante con amici e famiglia, o essere andati a prendere una persona amata a lungo lontana, per capire a cosa mi riferisco. Chiunque abbia accompagnato al terminal delle partenze qualcuno che non avrebbe rivisto per mesi ricorda, degli aeroporti, qualcosa di ben diverso dall’«ordalia della solitudine» descritta da Augé. Ciò non significa che il concetto di non-luogo sia privo di fondamento: nella mia esperienza, quanto Augé scrive delle autostrade o dei supermercati è particolarmente acuto e condivisibile. È l’esempio dell’aeroporto che non funziona. Si potrebbe dire, certo, che delle relazioni significative o delle esperienze umane profonde possono darsi in qualunque luogo frequentato da più di una persona per volta (l’unico non-luogo sarebbe quindi il gabinetto?). Il punto è che, in aggiunta a ciò che potrebbe accadere ovunque, certe cose accadono negli aeroporti proprio perché sono aeroporti. Gli addii alle partenze, le attese agli arrivi, il tempo perso in gruppo nelle lungaggini dell’imbarco, sono dei riti: ci uniscono, ci dividono, assommano in sé legami umani preesistenti o ne creano di nuovi. Sono, anche, dei riti del XX secolo, legati a una tecnologia molto recente e alle architetture che essa ha reso necessarie. E in queste architetture quei riti trovano posto, come i matrimoni nelle chiese barocche di Noto, che a una cultura lontana potrebbero apparire standardizzate quanto gli aeroporti ad Augé. Sono riti che si ripetono, entrando nella nostra memoria individuale e definendoci, collettivamente, in quanto comunità che li condivide: non il jet-set dei viaggiatori ricchi e solitari ma l’Easyjet-set di tutti quelli che si sono commossi di fronte alla porta scorrevole degli arrivi, e che continueranno a ripensare a quell’emozione ogni volta che vedranno un nastro dei bagagli, un controllo documenti, una corsia dei taxi costellata di parcheggi vietati, magari con il cartello, come al Jfk di New York, che dice kiss and fly. Certo che sono dei luoghi.