Rolla Scolari, IL 11/2012, 28 novembre 2012
L’EGITTO DI OGGI NON ACCETTA PIÙ I FARAONI
Il balcone dell’appartamento è piccolo e si fanno i turni per tenere a bada il nervosismo con le sigarette. Affondati nei divani del salotto, alcuni giovani attendono la chiamata alla preghiera, dopo la quale, da diverse piazze del Cairo, partiranno i cortei. È il 28 gennaio 2011 e quella notte, dopo una battaglia di ore, i manifestanti cacceranno le forze dell’ordine dal centro, impadronendosi di piazza Tahrir. Un anno dopo, Bassem Kamel e Ziad al Alimi, che pochi mesi prima rasentavano i muri per non attirare l’attenzione della polizia, saranno eletti al Parlamento, nel primo voto libero. La loro storia racconta l’indubbio progresso portato dalla rivolta egiziana, non racconta però la travagliata transizione dell’Egitto post-rivoluzionario, retto oggi non da quei movimenti giovanili che hanno riempito la piazza, ma dai Fratelli musulmani vincitori alle urne. Thanassis Cambanis, esperto della Century Foundation, ha da poco completato un libro che racconta le vicende di alcuni rivoluzionari nel dopo Mubarak, tra loro Bassem e Ziad: «Le transizioni sono sempre problematiche, ma più libertà è sempre meglio che meno. Il Paese in decenni di autoritarismo ha sofferto d’immobilismo. Ora assistiamo anche a eventi negativi, ma fanno parte di un processo di trasformazione politica. C’è il potenziale per andare nella giusta direzione».
«C’è chi si aspettava che una volta caduto Mubarak saremmo stati come voi», come l’Europa, dice Hussein Gohar, del Partito socialdemocratico. «Parliamo però di 30 e più anni d’oppressione. Soltanto due anni fa pensavamo che Gamal Mubarak sarebbe succeduto al padre e non avevamo la libertà di dire no». Hussein spiega come ai tempi del rais fosse impossibile fondare un partito senza l’approvazione della sicurezza interna e come oggi, invece, da attivista, lui incontri liberamente diplomatici stranieri e membri delle organizzazioni non governative internazionali. Mubarak è in prigione, dopo un processo. A novembre 2011, l’Egitto ha votato in elezioni parlamentari – non perfette ma libere – e a giugno 2012 per le presidenziali, quando gli egiziani hanno assistito per la prima volta a una vera campagna elettorale, con comizi e porta a porta. Ogni sera, su un canale privato, dopo decenni di candidato unico, hanno ascoltato increduli le proposte degli sfidanti in uno dei nuovi talk show televisivi: Misr Tantakhib el Rais, l’Egitto vota il presidente. Ai candidati è stato richiesto di dare dettagli sulla loro vita privata, la loro salute e le loro ricchezze. I militari che hanno retto il Paese da febbraio 2011 a luglio 2012, benché in molti pensassero che non avrebbero ceduto il passo, hanno lasciato il potere a un presidente eletto. Restano dietro le quinte, con un robusto peso in politica estera e intoccabili privilegi economici. Dopo la rivoluzione sono nati nuovi giornali e tv, ma è l’operato di realtà come Mosireen, organizzazione non profit che raccoglie dai giorni della rivoluzione video di citizen journalist, ad aver sfidato la narrazione dei media di Stato, ed esposto in immagini abusi e uccisioni di civili, da parte di forze dell’ordine. Il fenomeno delle molestie sessuali contro le donne nelle strade è in aumento, ma è in aumento anche la condanna sociale e la mobilitazione, con iniziative come HarrassMap, associazione che si occupa di fare opera d’educazione nei quartieri. Il presidente Mohammed Morsi, ex leader del movimento islamista, è sotto costante scrutinio, con critiche dai media, proteste di piazza contro il dominio islamista della Costituente e qualche trovata. Attivisti hanno creato online il MorsiMeter, per tenere il conto di quante saranno le promesse fatte da Morsi in campagna elettorale a realizzarsi.
L’antico scheletro del regime, la colossale burocrazia, infallibile arma del potere centrale, è però in piedi. I Fratelli musulmani sembrano essere più interessati a infiltrarla che a riformarla. La politica è dominata da scontri sulla nuova Costituzione tra islamisti e non sul ruolo dell’Islam. La giustizia non ha trovato colpevoli per i morti della piazza. Resta viva la discriminazione contro la minoranza cristiana. L’amministrazione Morsi è accusata di replicare tattiche dell’ex regime. A ottobre, il Nadim Center per la Riabilitazione delle vittime di tortura ha pubblicato un rapporto in cui registra, nei primi cento giorni di governo Morsi, 43 casi di morte, 88 di tortura, sette di abusi sessuali da parte delle forze dell’ordine. Il regime è incapace di garantire la sicurezza e la prova più impressionante è stato l’assalto dell’11 settembre all’ambasciata americana del Cairo. Su tutto, incombe lo spettro della crisi economica. Secondo la Banca mondiale, l’inflazione è al 10 per cento, la disoccupazione al 12, rivelano i dati del governo, mentre gli investitori dubitano e il turismo stagna. Il Paese – sostenuto dai ricchi potentati del Golfo e in attesa di un prestito da 4,8 milioni di dollari dal Fondo monetario internazionale – non sarà autosufficiente per anni.
«La società egiziana deve lavorare molto per mantenere i risultati della rivoluzione», dice Joshua Stacher, del Woodrow Wilson International Center, esperto di regimi autoritari. Non si può tornare indietro: l’Egitto non accetterà più un faraone. Il presidente è stato eletto e sa di dover fronteggiare nuove elezioni nel 2016. «È abbastanza?», si chiede Stacher: «Il rimpasto delle personalità non significa un cambiamento strutturale», l’antica burocrazia è ancora viva, l’esercito resta potente, la rete politico-sociale dei Fratelli musulmani marginalizza le altre forze politiche.