Dirk Vandewalle, IL 11/2012, 28 novembre 2012
ECCO PERCHÉ LA NUOVA LIBIA È UN SUCCESSO
L’uccisione dell’ambasciatore in Libia Christopher Stevens e di altri tre americani nel corso di un assalto al consolato Usa di Bengasi da parte di una folla inferocita, l’11 settembre, ha richiamato l’attenzione del mondo sui problemi della Libia del dopo Gheddafi. I disordini hanno evidenziato la forza delle milizie islamiche radicali e l’incapacità del governo di Tripoli di garantire la sicurezza e l’ordine. Illegalità e corruzione sono onnipresenti e rimangono senza risposta interrogativi fondamentali sulla struttura e la conduzione delle istituzioni politiche ed economiche. Ma tutto questo non deve oscurare il fatto che il quadro generale della nuova Libia è sorprendentemente positivo.
Un anno e mezzo fa sembrava che la Libia sarebbe stata la tomba della Primavera araba. Dopo le rivolte popolari che avevano portato alla cacciata pacifica dei dittatori nei due Paesi confinanti, Tunisia ed Egitto, la rivoluzione libica si era trasformata in una lunga e sanguinosa guerra civile. Anche dopo che i ribelli, con l’aiuto dell’Occidente, erano riusciti a rovesciare il regime di Muammar Gheddafi, nell’agosto 2011, rimanevano molti ostacoli da superare. I libici avevano un sentimento di identità nazionale molto aleatorio e nessuna esperienza con la democrazia. Il Paese era guidato da un governo di transizione che non aveva il monopolio dell’uso della forza. Per costruire uno Stato funzionale, la Libia doveva superare l’eredità di oltre quarant’anni di dittatura in cui il regime aveva impedito lo sviluppo di autentiche istituzioni nazionali.
Eppure, contro tutte le aspettative, in questo momento la Libia è uno dei Paesi che è uscito meglio dalle rivolte che hanno sconvolto il mondo arabo negli ultimi due anni. Il 7 luglio, la Libia ha tenuto le sue prime elezioni dal momento della caduta di Gheddafi, con i cittadini che si sono recati alle urne senza incidenti per eleggere i 200 membri del nuovo Congresso generale nazionale. Un mese dopo, il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), guida politica dell’opposizione fin dai primi giorni della guerra civile, ha trasferito i poteri al Congresso. Una commissione si occuperà ora di elaborare una proposta di Costituzione, che sarà sottoposta all’approvazione del popolo mediante referendum. Tutti questi sviluppi sono avvenuti nel rispetto del programma delineato dal Cnt quando ancora si combatteva.
Qual è la ragione del relativo successo dell’esperienza libica? Molti esperti ritenevano che la mancanza di istituzioni sviluppate rappresentasse un grave handicap per il suo futuro come democrazia, ma quanto successo nell’anno trascorso sembra indicare che il fatto di essere costretti a costruire uno Stato funzionante partendo da zero abbia rappresentato un vantaggio. A differenza della Tunisia e dell’Egitto, dove istituzioni radicate come le forze armate e gli apparati burocratici hanno mostrato una forte resistenza alle riforme, i nuovi leader di Tripoli non hanno avuto il problema di dover smantellare gli imponenti resti istituzionali dell’Ancien Régime.
I recenti risultati positivi ottenuti dalla Libia sono soltanto l’inizio della ricostruzione di un Paese lacerato dalla guerra, ricostruzione che promette di essere lunga e difficile. Ma se si vogliono prendere a indicazione le elezioni di luglio, bisogna concluderne che la maggioranza dei libici è determinata a costruire una comunità politica che rispetti le divergenze di opinione e risolva le controversie attraverso processi democratici.
Dopo la caduta di Gheddafi, erano in pochi a prevedere che la Libia sarebbe emersa come un esempio di successo. La monarchia libica, che governò dal 1951 al 1969, fece poco per mettere fine alla diffidenza reciproca che divide Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, le tre province storiche. Il re Idris non riuscì a creare istituzioni nazionali che andassero oltre il funzionamento più elementare di uno Stato moderno, mentre l’ingombrante ricchezza petrolifera assumeva un ruolo centrale nella vita economica e politica del Paese. Quando Gheddafi spodestò il sovrano, nel 1969, svuotò di significato le poche istituzioni che la monarchia era riuscita a creare.
Durante la recente guerra civile, eventi come l’omicidio, nel luglio 2011, di uno dei più importanti comandanti militari dei ribelli, Abdul Fattah Younes, da parte di una milizia antigheddafiana, e il caos che si era instaurato tra le file dell’opposizione dopo questo omicidio lasciavano pensare che il Cnt non sarebbe riuscito a ricucire le spaccature storiche. Anche dopo la vittoria dei ribelli, decine di milizie potenti contendevano al governo di transizione il controllo effettivo del territorio. Il pessimismo sul futuro era talmente diffuso che una serie di mezzi di informazione internazionali e locali, fra cui il Libya Herald, maggiore quotidiano in lingua inglese del Paese, ripetevano che la Libia sarebbe diventata il prossimo failed state, devastata da rivalità tribali e regionali e corrosa dai soldi del petrolio e dalla stessa politica del divide et impera che aveva tenuto saldamente in piedi il precedente regime per oltre quarant’anni.
Non solo aspetti negativi
La Libia non è implosa, ma illegalità e corruzione – come dimostra l’omicidio di Stevens – persistono. I thuwar (rivoluzionari) continuano a esercitare la legge per conto proprio: uomini appartenenti a milizie incontrollate torturano e seviziano detenuti catturati durante la guerra civile; le città sono ancora infestate dalla criminalità e da racket della protezione di tipo mafioso; nella parte meridionale del Paese le tribù libiche locali combattono con gruppi di etnia Tebu per il controllo del redditizio contrabbando oltreconfine; e la cosa allarmante è che una buona parte delle merci contrabbandate sono armi saccheggiate dagli arsenali di Gheddafi.
L’elemento forse più preoccupante è che il governo ha fatto pochissimo per garantire una transizione improntata alla giustizia e alla riconciliazione, un tema di cui non si è quasi parlato nel dibattito politico che ha preceduto le elezioni. Migliaia di presunti gheddafiani e di innocenti, sia libici sia di altri Paesi, sono ancora detenuti in prigioni controllate non dal governo, ma da milizie o gruppi di vigilantes locali. Molti dei componenti di queste milizie sembrano interessati più a regolare conti personali che a impartire giustizia. Una grave macchia per il nuovo governo è rappresentata dalle deportazioni e dai soprusi ai danni degli abitanti di Tawargha (cittadina vicino a Misurata), accusati di aver commesso atrocità per conto del regime. Ma analizzando con più attenzione i risultati ottenuti dalla Libia emerge un quadro più positivo. Il fatto che il Consiglio nazionale di transizione sia riuscito a organizzare elezioni nazionali e che ad agosto abbia trasferito i suoi poteri al Parlamento eletto è un segnale che la Libia ha cominciato a costruire istituzioni politiche reali. Le elezioni forse non sono state perfette sotto ogni aspetto (nell’Est del Paese ci sono stati casi distruzione delle urne), ma gli osservatori locali e internazionali (27mila circa) nella larga maggioranza dei casi hanno espresso un giudizio positivo. Il voto promette di rafforzare la fiducia dei cittadini nei leader attuali, garantendo al nuovo governo quella legittimazione popolare che al regime precede mancava. Con lentezza ma costanza, la Libia sta diventando un Paese più integrato, con governo in grado di agire efficacemente. Le autorità centrali hanno esteso il loro potere, a spese delle milizie che ancora contendono loro il controllo del territorio. Tutte le scuole sono state riaperte. Il commercio al dettaglio è fiorente: dopo mesi di inattività, il suq di Tripoli è di nuovo pieno di venditori fino a tarda sera. Il governo ha cominciato a riorganizzare l’apparato burocratico. I tribunali iniziano a funzionare in modo più autonomo: a giugno la Corte suprema ha annullato un’importante legge approvata dal Cnt, che sembrava finalizzata a mettere il bavaglio alla libertà di espressione. Spuntano centinaia di nuove organizzazioni della società civile e organi di informazione. Dopo 42 anni in cui nessuno concedeva loro la possibilità di esprimersi, ora i libici rivendicano, ed esercitano, il loro diritto a organizzarsi e far sentire la propria voce.
Ma la cosa forse più importante è il fatto che i libici ora sembrano accomunati dalla convinzione che il loro Paese è libero e indivisibile, nonostante i dissidi interni. Anche se i fautori del federalismo in Cirenaica continuano a spingere per una maggiore autonomia e altri gruppi chiedono la concessione di privilegi speciali, non sembra che ci siano rischi di una divisione del Paese. Il movimento federalista cirenaico, ora coagulato in un partito politico, ha attirato pochi consensi e si sta frammentando. E la necessità di commercializzare il petrolio con un’infrastruttura fisica integrata e una gestione burocratica unica contribuisce a tenere unita la Libia.
Si sta pian piano erodendo il potere delle milizie. Alcuni gruppi armati sono stati integrati nelle istituzioni nazionali, come la polizia e l’esercito, o sono stati formati e riconvertiti a occupazioni civili. Secondo stime ufficiose, entro il prossimo anno altre 250mila persone circa verranno reintegrate. I nuovi leader sono consapevoli che riportare sotto controllo le milizie sarà un processo lungo che non potrà basarsi solo sulla persuasione ma anche su esborsi pubblici. Nella sua opera di distribuzione di incentivi finanziari alle milizie, il governo cammina su una corda sottile, cercando di fare in modo che le elargizioni temporanee non si trasformino in prebende permanenti. Solo in questo modo si potrà evitare di imboccare la strada del clientelismo politico, fenomeno radicatissimo nella vita quotidiana degli anni di Gheddafi e che aveva creato interessi particolari ben consolidati.
Per consolidare i suoi progressi, e nonostante le capacità ancora limitate del governo, la Libia dovrà affrettarsi a sviluppare ulteriormente le nascenti istituzioni politiche, economiche e di sicurezza. Come hanno dimostrato le elezioni di luglio, il sistema politico nazionale ha ampli margini di crescita. I partiti faticano a formulare programmi coerenti e sono caratterizzati più dai singoli individui che dalle idee. I cittadini sembrano avere solo una visione rudimentale dei processi e delle procedure politiche. Tutti questi limiti sono stati ingigantiti da un sistema elettorale pensato per evitare che un gruppo politico prenda il sopravvento. Sui 200 seggi del Congresso generale nazionale, 80 sono stati eletti con un sistema proporzionale, in base alla percentuale di voti ottenuta da ciascun partito, e i restanti 120 sono stati assegnati a candidati votati direttamente dal popolo. Per giunta i candidati di partito, per la quota proporzionale, sono stati eletti con un sistema di voto singolo non trasferibile, che tende a favorire i singoli candidati a discapito dello sviluppo e della coesione dei partiti. In teoria la presenza di un gran numero di parlamentari indipendenti dovrebbe costringere l’assemblea a ricercare il compromesso e creare coalizioni, ma considerando la storia di faziosità e divisioni del Paese, l’unico risultato di un sistema del genere rischia di essere lo stallo.
Le elezioni e le prospettive future
Nel voto di lista l’Alleanza delle forze nazionali, guidata dall’ex capo del Consiglio nazionale di transizione, Mahmud Jibril, ha sgominato il Partito della giustizia e dello sviluppo, la formazione affiliata ai Fratelli musulmani. La rilevanza acquisita dalla figura di Jibril durante la guerra civile ha garantito alla sua coalizione una visibilità maggiore e questa visibilità si è trasformata in voti. Diversi commentatori occidentali si sono affrettati a celebrare la sconfitta degli islamisti per mano dei laici (teoricamente) della coalizione di Jibril. Ma è un’esultanza prematura: la verità è che tutti i partiti politici libici, compreso quello di Jibril, parlano di Isiam nel programma: l’unica differenza è il ruolo preciso riservato alla religione nella vita di tutti i giorni. Lo scadente risultato del Partito della giustizia e dello sviluppo non è legato tanto a ragioni ideologiche quanto al fatto che Gheddafì era riuscito a sradicare la presenza dei Fratelli musulmani, costringendoli, alla caduta del regime, a contare su risorse organizzative limitate.
Nelle votazioni future, quando il ricordo del Cnt e dei suoi leader comincerà a sbiadire e il Partito della giustizia e dello sviluppo e altre formazioni islamiste si organizzeranno meglio e riusciranno a elaborare programmi più sofisticati e dettagliati, gli islamisti probabilmente si ritaglieranno un ruolo più importante. Detto questo, la maggioranza dei libici sembra decisa a evitare che un singolo partito o movimento politico arrivi a esercitare la sua egemonia sul nuovo governo democratico. La sfida maggiore per la Libia sarà stimolare la nascita di un’autentica comunità politica. A differenza dell’evoluzione seguita generalmente in Occidente, dove Paesi con un’identità nazionale solida si sono trasformati progressivamente in democrazie elettive, la Libia dovrà costruire un’identità nazionale partendo dalla sua neonata democrazia. Un ruolo centrale da questo punto di vista lo giocherà la stesura di una Costituzione. Nei mesi a venire la commissione costituzionale libica, composta in parti eguali da rappresentanti delle tre province storiche del Paese, sarà chiamata a creare un assetto istituzionale in grado di indurre i diversi gruppi ad aderire a un progetto autenticamente nazionale.
Una macchina lubrificata dal petrolio
I nuovi leader dovranno trovare anche metodi migliori per gestire le risorse petrolifere del Paese e la sua economia. Gheddafi è riuscito a perpetuare la sua egemonia attraverso un uso distorto di queste risorse e la creazione di un’economia fortemente centralizzata, ma di fatto senza regole, che ora patisce tutti i problemi di una trascuratezza prolungata: mancanza di spirito imprenditoriale, un settore pubblico ipertrofico che svolgeva la funzione di datore di lavoro di prima e ultima istanza e che a un certo punto era arrivato a impiegare l’80 per cento della forza lavoro attiva, un’assistenza sanitaria e un sistema di istruzione deficitari, problemi ambientali e infrastrutture obsolete. Un altro problema dell’economia libica è l’insufficiente diversificazione: il settore petrolifero non può iniziare a creare occupazione in proporzioni tali da garantire un lavoro ai tanti giovani disoccupati e sottoccupati. Sulla carta i dati economici a breve termine appaiono buoni. La produzione petrolifera è tornata più o meno ai livelli precedenti alla guerra civile e i funzionari della National Oil Corporation (la società pubblica che gestisce il petrolio libico) prevedono che la Libia in due anni arriverà a produrre un altro milione di barili al giorno. Secondo un rapporto della Business Monitor International, la crescita del Pil reale quest’anno dovrebbe attestarsi sul 59 per cento, dopo il tracollo del 2011 (attorno al 49 per cento in meno). Ma queste proiezioni incoraggianti nascondono il fatto che senza riforme la Libia non riuscirà ad affrancarsi dalla sua condizione di rentier state.
Per mettere in moto l’economia e diversificarla sarà necessario che Tripoli promuova l’impresa attraverso programmi pubblici e inverta gli effetti di decenni di politiche clientelari basate sui proventi del petrolio: fra questi effetti c’è la diffusa corruzione e il prevalere fra i giovani di una mentalità assistenzialistica e di una scarsa etica del lavoro. Per affrontare questi problemi, paradossalmente, i nuovi leader libici dovranno intervenire nel mercato con forza nell’immediato, per poi ridurre la presenza dello Stato nell’economia nel lungo periodo. L’esperienza di altri Paesi ricchi di petrolio usciti da una guerra civile, come la Nigeria, dimostra che, se non si interviene con decisione nella fase iniziale per estirpare i modelli clientelari, questi tornano rapidamente a prendere il sopravvento e le vecchie élite cercano di riconsolidare il loro potere. L’unica via per evitare un’evoluzione di questo tipo è incrementare la trasparenza e il buongoverno ed espandere l’accesso della cittadinanza all’economia.
Fortunatamente le autorità libiche sono consapevoli della necessità di abbandonare l’improduttivo modello di sviluppo precedente e di gestire in modo più efficace i proventi del petrolio. Quando ancora era in corso la guerra civile, il Libya Stabilization Team, una sorta di centro studi della guerriglia con sede a Dubai, aveva concentrato la sua attenzione su una pianificazione economica più accorta. E l’argomento continua a giocare un ruolo determinante nei rapporti della Libia con le istituzioni finanziarie internazionali. Ma il governo dovrà tenere ben dritta la barra, perché è facile dirottare i proventi del petrolio a scopi clientelari.
È nato uno Stato
Per costruire uno Stato e incoraggiare la nascita di un’identità nazionale ci vogliono tempo e capacità di leadership: idee audaci, iniziativa e disponibilità al compromesso. Vale in particolare per la Libia, dove tutte queste cose negli ultimi quarant’anni scarseggiavano alquanto. Gli ambienti accademici e politici in Occidente hanno la tendenza (forse a causa del prolungato predominio nel mondo arabo di cricche di potere e autocrati interessati soltanto al proprio tornaconto) a sottovalutare l’importanza di una leadership di qualità nella regione: anche da questo punto di vista la Libia si è dimostrata un’eccezione e una sorpresa in positivo. Certo, nei mesi che hanno preceduto il voto il Cnt non è riuscito ad approvare quasi nessuna legge di rilievo e ha messo in atto disposizioni un po’ arbitrarie, come la Legge 36 sui beni degli individui legati a Gheddafi, un provvedimento affrettato e politicamente opportunistico, che alla fine è stato necessario emendare. Al momento del trasferimento dei poteri al Congresso il capo del Cnt, Mustafa Abdel Jalil, ha riconosciuto alcuni di questi fallimenti, in particolare l’incapacità di riportare la sicurezza nel Paese. Ma ha anche sottolineato che l’amministrazione transitoria aveva governato in «tempi eccezionali». Ed è per questo che molti libici, anche quelli che dissentono pubblicamente dal Cnt, nutrono un certo rispetto per i risultati che ha conseguito.
I compiti che attendono il governo sono tanto improbi quanto numerosi: garantire ordine e sicurezza, trovare un equilibrio fra potere centrale e potere regionale, espandere e rafforzare lo Stato di diritto, assicurare una transizione equa, rafforzare i diritti umani e incoraggiare un sentimento di identità nazionale fra tutti i libici. Negli sforzi per raggiungere questi obbiettivi la Libia andrà sicuramente incontro a battute d’arresto, che spingeranno anche i più ottimisti a dubitare dei progressi fatti. I recenti attacchi di gruppi islamisti contro santuari sufi, per esempio, sono la dimostrazione che le profonde differenze religiose in Libia continueranno a ostacolare la creazione di una comunità politica armoniosa. Ma il quadro più generale della transizione giustifica comunque la speranza: dopo soltanto un anno dalla caduta di una dittatura che aveva privato i libici di qualsiasi ruolo politico, uno Stato moderno, contro tutte le aspettative, comincia a emergere.
Se questi progressi continueranno a consolidarsi fino a dar vita a istituzioni solide, la Libia potrebbe diventare l’eccezione alla cosiddetta maledizione delle risorse naturali, quella regola apparentemente immutabile che vede i Paesi esportatori di petrolio condannati ad autoritarismo e stagnazione. Non solo: la Libia potrebbe diventare anche la prova che se si tratta di ricostruire un Paese lacerato dalla guerra, partire da zero è importante. Nessuno avrebbe potuto prevedere che, prendendo le mosse dalle desolate macerie del regime di Gheddafi e da una sanguinosa guerra civile, la Libia sarebbe stata capace di disegnare un governo efficace e inclusivo, eppure sono sempre più numerosi i segnali che indicano che è proprio quello che sta facendo. Ai leader libici è stata offerta un’occasione che le rivoluzioni vittoriose di solito non hanno: ripartire da capo, con ampia disponibilità di risorse finanziarie e la libertà di costruire uno Stato come meglio si crede.
E intanto che la nuova Libia emerge l’Occidente deve continuare a interpretare un fondamentale ruolo di supporto, più o meno come ha fatto durante la guerra civile. La morte di Stevens non deve dissuadere gli Usa dal lavorare a stretto contatto con Tripoli, perché Stevens stesso era consapevole che solo l’impegno americano poteva garantire alla Libia quelle competenze e quel sostegno indispensabili per consolidare la sua giovane democrazia.