Matteo Meneghello, Il Sole 24 Ore 27/11/2012, 27 novembre 2012
IN EUROPA È SOLO L’AIA A STABILIRE I LIMITI
Il braccio di ferro che sta lentamente paralizzando il più grande impianto siderurgico italiano nasce da un conflitto tra normative di tutela ambientale e di tutela della salute. Un conflitto che, secondo gli addetti ai lavori, non ha uguali nel resto dell’Europa, dove questioni del genere vengono pacificamente risolte attraverso l’Autorizzazione integrata ambientale. «In tutti i paesi europei – spiega Antonio Gozzi, presidente di Federacciai – l’Aia è lo strumento con il quale si gestiscono non solo la normativa ambientale, ma anche i rischi sanitari connessi ad un’attività industriale, insieme alle definizione delle Bat. L’applicazione di queste ultime sottende il fatto che quei limiti sono quelli compatibili con un rischio sanitario accettabile».
L’Aia, in estrema sintesi, è quel documento amministrativo che un’azienda deve possedere per potere procedere con la propria attività. Il conflitto in corso nasce dal fatto che la magistratura afferma che, a prescindere dalla prescrizioni contenute nella normativa, l’azienda non sta rispettando i limiti di emissione in grado di garantire la salute delle persone e l’integrità dell’ambiente circostante l’impianto: in base a dati e rilevazioni, i giudici affermano che Ilva, con la sua attività, continua ad essere pericolosa e dannosa per l’ambiente e per le persone che abitano nelle vicinanze, e sulla base di queste considerazioni hanno emesso un’ordinanza di interruzione dell’attività.
Secondo il leader degli industriali siderurgici italiani, però, «quando si afferma che i magistrati agiscono per tutelare il rischio sanitario si dice un’inesattezza giuridica. A Taranto – spiega Antonio Gozzi - la magistratura sta operando sulla base di standard non contemplati dalla legge europea, con altre metodologie. In Europa c’è un governo che sulla base di regole condivise definisce gli interventi che vanno realizzati per rendere compatibile un impianto industriale, e questa è la legge. Spetta poi al Governo nazionale applicarla e farla rispettare. Se disconosciamo questa realtà, se riteniamo queste prescrizioni insufficienti, allora la magistratura dovrebbe prendersela anche con gli estensori dell’Aia, e non solo con l’azienda».
Carlo Mapelli, docente di metallurgia al Politecnico di Milano, conferma che «una volta rilasciata l’Aia, l’azienda è autorizzata a produrre, impegnandosi a dare seguito a quanto contenuto all’interno della legge: non si pretende certo – spiega - che gli impegni in essa contenuti siano già realizzati. Si tratta tra l’altro di un documento molto dettagliato, che definisce anche quali tipologie di prodotti possono essere commercializzati e in quale quantità.
Addirittura, e questo può essere per certi versi discutibile, l’Aia di Ilva ha messo anche un tetto alla soglia di produzione, fissandola a 8 milioni di tonnellate. Tecnicamente – aggiunge il docente – la magistratura non ha invece competenze nell’autorizzare, e neppure nel definire i livelli di emissione, perché la legge li delega alle sole autorità. I giudici devono basarsi sui limiti prescritti dall’Aia, che tra l’altro sono tra i più stringenti in Europa, dal momento che il Governo si è fatto carico di anticipare in questo documento quelli che saranno gli obiettivi del 2016». Il braccio di ferro di Taranto è un conflitto solo italiano, quindi, che ora rischia di sfociare in uno scontro aperto tra istituzioni. Forzando la mano, il governo potrebbe nominare un commissario straordinario, definendo il sito di Taranto sito strategico, scavalcando di fatto la magistratura. Ma si tratterebbe di un pericoloso scontro di poteri. Antonio Gozzi è convinto che nell’immediato futuro, comunque, «il tema si porrà. Già a luglio – spiega – si vociferava di un ricorso alla Consulta. D’altra parte, è stata scritta un’Aia, ma non la si può attuare perché aree e impianti sono sotto sequestro. Ma l’Aia è legge: non attuarla configura un reato, che andrebbe esso stesso perseguito».