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 2012  novembre 27 Martedì calendario

LO STOP DELL’ACCIAIERIA COSTERÀ 9 MILIARDI

Non serve scomodare la teoria del caos e il famoso "effetto farfalla" per capire che la chiusura dello stabilimento dell’Ilva di Taranto genererà sul sistema produttivo italiano un effetto dòmino dai costi rilevanti. E già perché se il diritto alla salute viene prima di ogni analisi economica, nel caso di Taranto quello che è molto di più d’un battito d’ali – lo stop produttivo dell’acciaieria – potrà avere ripercussioni a livello nazionale ed europeo.
A quantificare questi effetti ci ha pensato Federico Pirro, docente di storia dell’industria e responsabile del Centro studi di Confindustria Puglia: «Su una produzione di 8,8 milioni di tonnellate – scrive l’economista in un report – l’Ilva impegna sul mercato interno 5 milioni e mezzo di tonnellate, il 40% del fabbisogno nazionale di prodotti piani. Sono quantità che se venissero a mancare dovrebbero essere sostituite con altre importazioni, che già oggi sfiorano i 10 milioni di tonnellate con un disavanzo di 2,5 milioni di tonnellate».
Ecco allora che l’impatto negativo sulla bilancia commerciale sarebbe pari proprio all’intera produzione dell’Ilva: 5,5 milioni di nuovo import sostitutivo e 3 milioni di tonnellate di mancate esportazioni. «In termini economici – continua Pirro – le valutazioni di Confindustria ipotizzano un peggioramento dei saldi della bilancia dei pagamenti compreso tra i 4 e i 6 miliardi di euro a seconda del prezzo del coils di riferimento». A queste cifre, sempre secondo l’analista, «debbono essere aggiunti extra-costi legati per esempio alla logistica, ai servizi e agli oneri finanziari delle importazioni, ma anche l’onere a carico dello Stato per la cassa integrazione, i minori introiti in termini di imposta e altri costi sociali, compreso l’impatto sul territorio regionale della minore capacità di spesa di migliaia persone, per un effetto che si muove tra i 6 e i 9 miliardi di euro l’anno».
Qualche numero sull’Ilva: l’anno scorso il contributo dello stabilimento di Taranto alla formazione del valore generato dall’azienda ha superato l’88% (5,3 miliardi), su un fatturato consolidato pari a 6.036 milioni di euro, in crescita del 21% rispetto al 2010 e del 97,5% sul 2009 ma al di sotto dei valori del 2008 (-11%). Tutto questo in un contesto macroeconomico nel quale la produzione europea di acciaio sta cedendo il passo ai giganti asiatici, Cina in testa. «La produzione Ue è passata da una quota di mercato sulla produzione mondiale del 17% nel 2005 – rileva Pirro – a una quota inferiore al 12%, con l’Asia che invece è passata da una market share del 52% di sette anni fa all’attuale 64 per cento».
Inoltre gli effetti del blocco delle attività pugliesi produrrebbero un calo del 7-8% del Pil regionale fino a un punto percentuale in meno a livello nazionale, con a rischio gli oltre 11.600 dipendenti tarantini sui 15.300 totali. Di recente, il presidente di Confindustria Taranto, Vincenzo Cesareo, citava una stima di Bankitalia, secondo cui « l’impianto e le attività connesse pesano per il 75% sul Pil della provincia di Taranto e per il 20% sulle esportazioni della Puglia. Se l’acciaieria sparisse, la città passerebbe in poco tempo da 250mila a 30mila abitanti».
Guardando sempre alla produzione europea di acciaio, l’Italia, nonostante tutte le difficoltà, almeno fino al 2011 non ha sfigurato visto che la produzione nostrana si è mantenuta stabile al secondo posto nel Vecchio Continente, con una quota di mercato del 16,2 per cento. È chiaro però che un fermo definitivo degli altoforni pugliesi potrebbe innescare una serie di effetti a catena su prodotti diversissimi: dalle lamiere di acciaio da 20 millimetri, utilizzate per la costruzione di navi transoceaniche, ai fogli 100 volte più sottili (fino a 0,15 millimetri) per le conserve di pomodoro. Tutte aziende che dovrebbero approvvigionarsi altrove.
«A essere spiazzata – conclude Pirro – sarebbero sia la parte della manifattura italiana che esporta e sia quella che opera sul mercato nazionale ma che si deve comunque confrontare con concorrenti stranieri». E allora il battito d’ali della nota farfalla potrebbe sì scatenare un "sisma" nel mondo industriale della Penisola.