Anna Lombardi, il Venerdì 23/11/2012, 23 novembre 2012
MEMORIE DAL SOTTOSUOLO
PRINCETON. «Michael Crichton era morto da poco, all’improvviso. Aveva un tumore che non aveva rivelato. Lasciava un manoscritto appena abbozzato. E una moglie incinta con la metà dei suoi anni. Mi chiamò il mio agente chiedendomi se volevo leggerlo. E farmi venire un’idea». Nella sua casa di Princeton immersa nel foillage autunnale, Richard Preston – il giornalista pluripremiato per l’accuratezza dei suoi articoli, autore di romanzi ispirati a storie vere, come Area di Contagio, sul virus Ebola – racconta la sua impresa più rischiosa: concludere l’ultimo romanzo del più grande autore di bestseller d’America.
«Mi precipitai a Manhattan. Dovetti firmare un accordo di segretezza e poi fui chiuso in una stanza senza poter prendere appunti: a leggere il manoscritto che altri scrittori avevano già letto. Qualche giorno dopo presentai tre pagine di idee su come proseguire la storia. E un titolo: Microworld».
Cosa la colpì del racconto?
«L’incipit avvincente: morti misteriose e sette studenti di biologia miniaturizzati dall’avido presidente di una società specializzata in nanotecnologie. Devono sopravvivere nella foresta pluviale hawaiana, un microcosmo popolato da insetti. Ma era un terzo del libro: senza centro né finale. Crichton aveva lavorato disperatamente al manoscritto. Scriveva col portatile sulle ginocchia durante la chemioterapia. Voleva finire il romanzo per il figlio: che sarebbe nato dopo la sua morte. Ora Sherri Crichton, la vedova, voleva che qualcuno finisse il romanzo per lui. Fu lei a scegliermi. Scoprii che Michael aveva un diario segreto, pieno di appunti sulla storia. E un titolo: Micro. "Sei in sintonia con lui", mi disse Sherri quando la incontrai...».
Conosceva Michael Crichton?
«Lo amavo fin dai tempi del liceo. Quando lessi Andromeda m’inventai un’influenza per restare a casa a finirlo. Ma non lo avevo mai incontrato. Per avere un’idea della sua voce, della sua personalità, ho visto centinaia di video».
Oltre al titolo cosa c’era nel diario?
«Idee: ma nessuna struttura. Aveva descritto i protagonisti e li aveva nominati uno a uno. Aveva deciso chi doveva morire e chi sopravvivere. Aveva abbozzato un brutto scherzo al protagonista. Ma i dettagli, i percorsi, i colpi di scena: ho dovuto immaginare cosa avrebbe fatto lui».
Come?
«Per prima cosa visitando le Hawaii dov’è ambientata la storia. Un luogo che Crichton amava. Visitai le periferie, luoghi strani. Ma l’illuminazione fu quando mi sdraiai nella giungla a pancia in giù: a guardare il terreno con la lente d’ingrandimento, immaginando come muoversi in quel micro mondo. Poi ho avuto accesso ai libri che stava leggendo. Sottolineava in giallo tutto ciò che lo interessava. Cosi ho capito in che direzione si stava muovendo».
Nel racconto ci sono elementi ispirati ad altri libri di Crichton...
«Ho studiato i suoi romanzi attentamente. Alcuni sono più riusciti di altri e mi sono concentrato su quelli: Timeline e Jurassic Park. Ho fatto una lista di caratteristiche tecniche che mi è stata molto utile».
Ha avuto un editor?
«Oh si, due. Sherri Crichton, certo. E Bonnie Jordan: l’assistente personale di Michael, che aveva collaborato ai suoi ultimi cinque libri. Donne che ne conoscevano il pensiero e il linguaggio. È stata Bonnie a eliminare tutti i meanwhile (nel frattempo) che avevo usato. "Non ci sono nel frattempo nei libri di Crichton. Accade tutto a ritmo serrato: bang bang bang"».
Si sa poco del suo metodo di lavoro.
«Era molto schivo. Aveva una casa dove andava a scrivere, sulla spiaggia di Santa Monica. Nessuno sapeva che lavorava lì, tanto meno i vicini. Un edificio modesto: cucina, salotto e un cortile sul retro. Al piano di sopra, una camera da letto: è qui che lavorava, circondato da scatole piene di libri, su un enorme computer Apple. Buttava giù qualche pagina, la stampava e le dava a Bonnie, nella stanza accanto. Lei correggeva a matita e gliele restituiva. Molto rapidamente».
Il suo metodo è simile?
«No. Lavoro solo, scrivo piano e faccio molte revisioni prima di mostrare il testo a qualcuno».
Immedesimarsi nella scrittura di un altro: le è pesato?
«Questo non è un romanzo di Richard Preston: scrivere come Michael Crichton è stata fin dall’inizio la sfida per cui sono stato ben retribuito. L’ho fatto con lealtà verso un uomo che ha lavorato fino all’ultimo. Nei suoi appunti, poi, ho trovato una dedica. "To Jr.". Chiesi a Bonnie se c’era un amico chiamato come l’eroe di Dallas, a cui Michael intendeva dedicare il libro. Lei disse che aveva dedicato un solo libro a qualcuno: la figlia Taylor nata da un matrimonio precedente. Capimmo: Junior, il figlio ancora senza nome. Così appesi una foto del bambino nel mio studio. Per aver sempre presente per chi stavo scrivendo».
Tanta accuratezza scientifica però appartiene a Richard Preston.
«Amo la scienza, mi piace essere accurato. I comportamenti degli insetti, le descrizioni ambientali sono precise. Certi fan di Crichton hanno protestato: troppi scarafaggi e poco hi-tech. Ma l’idea di ambientare la storia nel mondo naturale è stata di Michael. Il suo spirito è intatto. Come quel suo senso dell’horror così particolare».
E gli scienziati, come hanno reagito?
«Ho una certa reputazione in quell’ambiente. Così immagini il mio stupore quando un giorno, sulla mia pagina Facebook, mi scrive un entomologo infuriato. "Lei è un idiota. Lo sanno anche i bambini che gli insetti non hanno polmoni. Com’è possibile che i protagonisti sentano il respiro di un ragno?". Ho risposto postando un articolo di Science, dove si raccontava di un esperimento con sofisticati strumenti che registrava proprio il respiro degli insetti. Lui è stato sportivo. Mi ha risposto: "Ok, ho sbagliato. Ma il libro non mi è piaciuto". È vero, i ragni non hanno polmoni. Ma se sei un uomo minuscolo sicuramente senti il loro respiro».
Nella storia ci sono altri elementi di realtà. L’industria privata che recluta studenti, i segreti militari. E la questione controversa sul copyright di medicine antiche.
«Io e Crichton avevamo idee politiche diverse, lui era un conservatore e io no, ma su certi argomenti so che eravamo in sintonia. Credo sia importante farli conoscere al pubblico».
E le nanotecnologie? Il romanzo anticipa il futuro come ha sempre fatto la fantascienza da Jules Verne in poi?
«Il futuro è già qui. Al Sandia, il laboratorio governativo di Los Alamos, in Arizona, dove si fanno ricerche segrete ho visto la minuscola sicura di un’atomica. Una nanochiave con cavi, rotelle, dentini. Serve a impedire che una bomba finita in mano a terroristi sia utilizzabile. Ma nessuno la vuole: più facile spingere bottoni. Ma, no, non ci sono macchine che miniaturizzano cose e persone e non ci saranno per molto tempo. Quelle lasciamole a Hollywood»
Già, Hollywood. C’è un’opzione per il film?
«Non lo so. I diritti sono della famiglia Crichton. Credo sia in atto una contrattazione difficile. Perché una volta ceduti i diritti non hai più controllo sulla storia: Michael, che pure aveva ottime relazioni con Hollywood, se ne lamentava di continuo».
Ora che Micro è primo in classifica in America cosa fa? Torna a scrivere per se stesso?
«Sto lavorando a una saga per bambini. Un libro di 400 pagine che narra un mondo fantastico, con qualche attinenza scientifica. Addio Michael Crichton. Torno a essere Richard Preston».
Anna Lombardi