Deborah Ameri, il Venerdì 23/11/2012, 23 novembre 2012
LA COSA PIÙ DIFFICILE? RECITARE LA MIA PARTE SEMPRE NUDA
LONDRA. Neppure un grammo di divismo. Atteggiamento spiccio, occhi onesti. Porta jeans, maglioncino a V e scarponcini. E nemmeno un filo di trucco. Helen Hunt è nervosa, a disagio. La incontriamo al Soho Hotel di Londra per parlare del suo film più coraggioso, The Sessions, in cui appare più nuda che vestita. Sarà nelle sale italiane il 14 febbraio, ma negli Usa è già uscito diventando subito il film dell’anno, un potenziale pigliatutto ai prossimi Oscar. Racconta la storia vera dell’americano MarkO’Brien (interpretato da John Hawkes), poeta e giornalista, morto nel 1999, che, dopo aver contratto la polio da bambino, è paralizzato dal collo in giù ed è costretto a vivere in un polmone d’acciaio. A 38 anni decide di perdere la verginità e, grazie anche all’incoraggiamento di un sacerdote (William H. Macy), ingaggia una sex surrogate, una terapista che lo guida alla scoperta della sessualità e fa l’amore con lui. È il ruolo di Hunt, premio Oscar per Qualcosa è cambiato, sparita dal radar hollywoodiano dopo Cast Away con Tom Hanks. Il film affronta tematiche difficili, come il sesso e la disabilità, ma il regista Ben Lewin (lui stesso un sopravvissuto della polio), non cede mai né alla pruderie né al vittimismo.
Qual è stata la sua prima reazione quando ha letto il copione e ha scoperto di dover recitare nuda per quasi tutto il film?
«Terrore. E disagio. Sono imbarazzata dalla nudità, ma aspettavo una sceneggiatura così da anni, È una storia straordinaria e volevo questa parte. Al primo incontro con il regista ho capito che le scene di sesso non sarebbero state né erotiche né glamour. Ma molto reali e necessarie per raccontare la storia. Per questo ho accettato, anche se le inquadrature sono impietose e dovevo spogliarmi alla luce del sole».
Come ha superato l’imbarazzo?
«Mi sono detta: ho quasi 50 anni, è troppo tardi per preoccuparsi di queste sciocchezze, delle mie curve o dei miei difetti. A questo punto della mia vita si deve essere coraggiosi».
E lo è stata: non sono molte le attrici di Hollywood che avrebbero accettato la parte.
«A Los Angeles c’è una vera ossessione per il look. Io non me ne preoccupo da tempo. A vent’anni, sì, era un problema. Ero sempre lì a contare calorie e a sudare in palestra. Ma non ero felice. Ho smesso di fare diete e di pesarmi. Oggi mangio di tutto e faccio yoga tre o quattro volte la settimana».
Come ha costruito il suo personaggio?
«Non avevo mai sentito parlare delle sex surrogate. Mi sono documentata su di loro. Sono terapiste molto qualificate, che vengono pagate per fare sesso con i loro clienti, ma ovviamente non sono prostitute. Ho parlato a lungo con Cheryl Cohen Greene, la donna che interpreto e che aiutò Mark O’Brien a perdere la verginità. Le ho fatto mille domande, anche le più intime. Mi ha sempre risposto con franchezza. E ho scoperto che pure lei all’inizio era imbarazzata con i clienti».
Nelle scene di sesso lei e Hawkes siete molto a disagio. È stato difficile ricreare un rapporto cosi particolare?
«Eravamo a disagio per davvero! John ed io non ci conoscevamo affatto. Il regista non aveva voluto che facessimo prove prima del ciak proprio per impedire che prendessimo familiarità l’uno con l’altra. E ha funzionato. Eravamo entrambi molto nervosi».
Lei crede che il sesso si possa davvero insegnare e imparare?
«Spero di sì. Questo film "decostruisce" il sesso, lo rende un atto normale, imperfetto, improvvisato. Siamo tutti un po’ come Mark O’Brien, in fondo. Speriamo di non essere umiliati, di essere trattati con gentilezza, di dare e ricevere piacere. Spesso non sappiamo come comportarci a letto. Il film promuove un approccio sano al sesso: non ci sono regole né norme, meglio dire al partner cosa piace e cosa non piace. Dovrebbero proiettare The Sessions nelle scuole superiori. Sarebbe molto educativo».
Lo farebbe vedere anche a sua figlia?
«Makena ha otto anni, è troppo piccola. Ma, fra un po’di tempo, credo di sì».