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 2012  novembre 26 Lunedì calendario

MARIANNE LAKE DA LADY NESSUNO AL POSTO CHE SCOTTA DELLA JP MORGAN


Quando - tra poco più di un mese - Marianne Lake si insedierà a 43 anni sulla poltrona più scottante di Wall Street, il mondo finalmente capirà se quel demonio di Jamie Dimon è appunto un diavolo di Ceo o un povero diablo.
Errare è umano e perseverare, si sa, diabolico: e se la nomina di Marianne a chief financial officer della JP Morgan, seconda banca americana con quasi duemila miliardi di dollari in asset di bilancio, si rivelasse clamorosamente sbagliata, il destino sarebbe tragicamente segnato per l’ormai unico superboss sopravvissuto dai tempi gloriosi di prima della Recessione.
Così sulle spalle a prima vista gracili di Mrs. Lake poggia adesso non solo il peso specifico, e già considerevole, del ruolo, ma anche quello del secondo istituto bancario più grande d’America. E per carità: il fatto che i destini di Wall Street siano appesi alla gonna di una signora di cui fino a ieri non aveva sentito parlare assolutamente nessuno, e di cui a malapena circola sempre la stessa foto tessera, e ancora che fino all’altro ieri era addirittura una semioscura contabile in quel d’Australia, la dice lunga sulle incredibili opportunità che possano aprirsi in questo grande paese chiamato America.
Peccato per il piccolo e determinante particolare che Marianne sia stata scelta per tappare il buco aperto qualche mese fa da un’altra donna di cui, fino al disastro, non aveva sentito parlare assolutamente nessuno, Ina Drew. Ma anche questo la dice lunga invece sui rischi che quel diavolo di Dimon ha deciso di correre. Marianne, come da previsioni, gioca in difesa. E a chi ancora strabuzza gli occhi di fronte alla sua ascesa, subito sventola la bandiera dell’umiltà: «Spero di poter essere descritta come un’ottima partner, come qualcuno capace di aiutare a impostare e a sviluppare il business».
Parole sante, forse un po’ troppo sante per quest’ambientino diabolico che è Wall Street. La verità è un tantino più prosaica. La verità è che prima ancora che ottima partner capace di aiutare etc etc etc, Marianne Lake è la donna a cui è stata messa in mano la ramazza per spazzare via da JPMorgan i cocci del vaso miliardario lasciato cadere da Ina, l’altra donna che sotto il dominio di Dimon era diventata così potente da poter scommettere su quegli investimenti evidentemente maldestri che hanno fatto precipitare la superbanca nel tristemente famoso buco da 6 miliardi di dollari: 6,2 per l’esattezza.
La storia è tragicamente stranota. Era stata proprio la potentissima Ina a chiudere più di un occhio sui movimenti di Bruno Iksil, un signore che pure nel mondo spregiudicato degli hedge funds era mica per niente soprannominato “London Wha-le”, la Balena di Londra, per l’ampiezza e il peso del suo pacchetto di derivati laggiù nella City.
Che disastro. E non solo per le perdite. Ma anche per la lentezza di reazione e le coperture sospette, e insomma l’intera performance di JpMorgan di fronte alla crisi. Poteva il grande Dimon non sapere? Poteva, nel senso che era nella potestà di fare certamente quello che poi ha fatto: cioè far cadere una testa dopo l’altra, fino a quella della stessa Ina. E da lì continuare a tagliare sempre più in alto. Fino appunto alla gola di quel Doug Braunstein, 51 anni, che ufficialmente fino all’inizio del prossimo anno siede sulla poltrona che accoglierà la nostra Marianne, ma già dalla scorsa estate era stato ridotto a mezzo servizio - lui che aveva chiuso gli occhi di fronte alla Ina che aveva chiuso gli occhi di fronte a Bruno - e affiancato da due coreggenti che rispondevano direttamente a Dimon.
Promuovere per rimuovere, a gennaio Doug verrà pensionato in uno di quei ruoli da vicepresidente che nelle grandi compagnie salvano la faccia e non si negano mai a nessuno. E così nella superbanca si ristabilirà la regola del chief financial officer, cioè la nuova Lake, che risponde direttamente al chief executive officer, cioè Dimon. Ma che cos’avrà trovato il superboss in lei da riaffidarle senza tentennamenti le chiavi della cassa?
Per giustificare la scelta di Lady Nessuno, l’insuperabile Jamie ha usato parole più che di velluto con il Financial Times: «Marianne è una delle nostre star da molto tempo». Ok, ma che cosa avrà mai fatto? «È fantastica con i numeri. È forte in QI», cioè nel quoziente d’intelligenza «e nel QE», cioè il quoziente emotivo. Più che il ritratto di un Cfo, sembra quello di una fidanzata. Pennellato con un entusiamo la cui sincerità s’infrange contro la domanda successiva: quanto ha contato il buco della Balena Londinese in tutto il ricambio? «Nulla...»
Naturalmente la Balena ha pesato, eccome se ha pesato. Mica è un caso che Lady Marianne sia stata pescata per la sua completa estraneità al mondo, e allo scandalo, dei derivati. E per la sua relativa estraneità alla combriccola che ha fin qui retto la banca. L’ascesa di Mrs. Lake sembra quella di una normale travet. Laureata non in economia e finanza ma in fisica, e con una formazione comunque più portata a badare alla sostanza dei fatti che alla chimica delle magie di Wall Street, Marianne lavora per Price WaterHouse Coopers tra Londra, dov’è nata da padre americano e madre inglese, e poi nell’ufficio di Sydney, prima di essere adocchiata dal gigante americano, che nel 2004 la assume come senior financial officer per l’Inghilterra. Nella banca fa di tutto, occupandosi sia del lato clienti che di quello investitori. E il salto di qualità arriva nel 2007, alla vigilia della Grande Recessione, nella quale Marianne si distingue soprattutto per la gestione del caso Bear Sterns, la prima grande vittima del collasso finanziario che la superbanca di Jamie Dimon si pappa e digerisce.
Ma neppure questa pur brillante performance permette alla lady di assurgere al circolo mica tanto ristretto dei Magnifici Cinquanta, il Comitato Esecutivo che regge le sorti della seconda banca d’America. Certo che si guadagna i suoi primi galloni da cfo: ma nel più umile settore delle vendite diciamo così al dettaglio, il retail branch systems. E allora com’è che è arrivata alla superpromozione di questi giorni?
Dicono che se non lei Jamie avrebbe scelto comunque un’altra donna, Blythe Masters, un’altra interna. Del resto donna è pure Ruth Porat, il chief financial officer della banca rivale d’affari, Morgan Stanley. Anzi. Ruth & Marianne: la disegnano già così la coppia al femminile più potente di Wall Street. Un segno dei tempi? L’indice che qualcosa è cambiato nel mondo finora al supertestosterone della finanza?
La risposta è più amara. Ferme al 14 per cento del totale, non solo le donne cfo sono ancora una minoranza, ma pagano anche il gap degli stipendi, guadagnando molto meno dei signorini colleghi. Vero è che all’interno della categoria il 24 per cento, cioè un quarto, sono cfo di strutture finanziarie. Dove però, occhio, non si richiedono più quelle magie capaci di trasformare le ricchezze qui e ora: abbiamo già dato, in quello, tra Balene e altri disastri. Insomma l’ascesa di Marianne è la prova che le superbanche sono alla disperata ricerca, in quel ruolo, di bravissimi, e sempre più bravissime, manager: capaci/e più a far di conto e a fare squadra che a lanciarsi in spericolatissime operazioni.
E in quest’ottica allora sì che quadra tutto. Comprese le primissime dichiarazioni di Lady Nessuno Lake: «Per me non cambia nulla, non mi sento sotto i riflettori». Certo che no: non è lei alla ribalta, con la sua brava ramazza in mano. Ma quel diavolo di Dimon, che l’ha scelta per rimettere ordine, e su di lei sta rischiando tutto, adesso sì che lo sarà sempre di più.