Anna Germoni, Panorama 22/11/2012, 22 novembre 2012
41 BIS - VUOI VEDERE CHE NON C’ERA BISOGNO DI UNA TRATTATIVA?
Ma ci fu davvero, la trattativa fra Stato e mafia? Davvero nelle istituzioni ci fu chi garantì una contropartita alla decisione di interrompere le stragi? A Palermo, dal 29 ottobre, il giudice Piergiorgio Morosini è impegnato nella difficile e delicata udienza preliminare che dovrà decidere se rinviare a giudizio 12 imputati, fra boss e uomini dello Stato. Nelle carte della procura, proprio «l’allentamento» o «il deprecabile cedimento » del 41 bis è il fulcro dell’accusa.
Il 41 bis è l’articolo della legge sull’ordinamento penitenziario che dal 1975 stabilisce un trattamento particolarmente duro nei confronti dei detenuti legati a organizzazioni criminali. I magistrati palermitani, guidati da Antonio Ingroia (oggi in Guatemala), sono convinti che le stragi di mafia del 1992-93 avessero lo scopo di allentare le durezze di quelle norme. Nella richiesta di rinvio a giudizio contro i 12 imputati scrivono che, quando nel novembre 1993 fu deciso di ridurre drasticamente il numero dei reclusi sottoposti al 41 bis, quello fu «il segnale che si volesse andare incontro ai desiderata di Cosa nostra».
Ma dagli archivi dei tribunali affiora una verità contraddittoria: e cioè decine, centinaia di ordinanze di annullamento totale e parziale del 41 bis, decise dai magistrati di sorveglianza (quelli che si occupano dei detenuti) proprio in quel complesso periodo a cavallo tra 1993 e 1994. Sono scelte libere, di giudici verosimilmente non condizionati dalla mafia. E la scoperta rischia di ridurre drasticamente l’impianto e l’impatto dell’accusa a Palermo.
Il Tribunale di sorveglianza di Firenze, per esempio, accoglie il reclamo mosso il 25 agosto 1993 da un detenuto originario di San Luca, nel Reggino, all’epoca recluso nel carcere di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba. Costui era stato condannato a 20 anni di reclusione per concorso in sequestro di persona e per estorsione e gli era stato applicato il 41 bis. Ma i giudici fiorentini analizzano diversamente la sua situazione: «È pacifico come il detenuto appartenga a una delle più note famiglie di San Luca, il paese calabro tristemente presente nelle cronache per l’alto tasso di devianza penale e di sequestri di persona a scopo estorsione che vengono consumati nella zona. A ben vedere, però, questa sua appartenenza, locale e familiare, è l’unico dato che può avere in realtà occasionato e giustificato la rigida restrizione cui oggi è sottoposto. Altro a suo carico non vi è». Risultato: a Firenze il decreto del 41 bis a carico del detenuto calabrese viene annullato. Ed esattamente in quello stesso momento altre centinaia di provvedimenti di carcere duro vengono invalidati, in molti altri tribunali.
Insomma, è possibile che nel 1993 Cosa nostra abbia chiesto o imposto l’eliminazione o l’attenuazione del 41 bis anche ai giudici di sorveglianza di mezza Italia? L’ipotesi, inverosimile, rischia seriamente di ridurre la portata dell’ipotesi di una trattativa fra parti dello Stato e Cosa nostra. Del resto, è innegabile che l’anno dopo le due stragi di Capaci e di via D’Amelio siano proprio i tribunali di sorveglianza a contestare i decreti ministeriali che in precedenza hanno inflitto un regime penitenziario particolarmente severo.
Il primo a esprimersi criticamente è il Tribunale di Ancona, nel gennaio 1993, con sei ordinanze di annullamento del 41 bis. Poi viene quello di Firenze. Seguono Napoli, Perugia, Milano, Catanzaro, Trieste. Alla fine arriva la Corte costituzionale, che con due sentenze sempre nello stesso anno reputa legittima la norma. Però la stessa Consulta, il 28 luglio 1993, definisce il 41 bis «certamente di non felice formulazione».
Perché i tribunali di sorveglianza annullano i decreti? È segno di quel «deprecabile cedimento sul 41 bis» nei confronti della mafia di cui parlano i pm di Palermo? Le cose sembrano molto diverse, almeno a sentire gli stessi giudici. Molti di loro, infatti, sono stati ascoltati nel 1994 dalla Commissione parlamentare antimafia guidata allora da Tiziana Parenti, a sua volta ex magistrato e deputato di Forza Italia. Sentiamo le loro parole. Davanti alla commissione Antonella Giuliana Magnavita, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Catanzaro, precisa: «In una prima fase l’emissione (del 41 bis, ndr) riguardava moltissimi detenuti. Forse era stato fatto un lavoro affrettato, tant’è che il Tribunale di sorveglianza di Catanzaro ha dovuto rilevare l’emissione di decreti anche in casi non consentiti, cioè in casi di detenuti imputati che non erano compresi nell’articolo 41 bis. Nella seconda tornata di decreti c’era una motivazione in ciclostile, uguale per tutti, imputati o condannati, in genere dei maxiprocessi: era lo stesso decreto applicato a decine e decine di imputati. Ritenevamo illegittimo il decreto per violazione della legge, in quanto viziato per carenza di motivazione: ne disponevamo pertanto la disapplicazione».
Più drastico ancora Antonio Maci, in quel momento a capo del Tribunale di sorveglianza di Milano. Sentito dalla Commissione antimafia il 3 novembre 1994, dichiara: «Capisco la valenza politica della questione, per cui sopprimere oggi il 41 bis darebbe la sensazione che non si voglia più combattere la mafia. Ma come magistrato di sorveglianza, che esprime un giudizio tecnico-giuridico, devo dire che il 41 bis è al limite della costituzionalità».
Il presidente del Tribunale di sorveglianza di Perugia, Piero Poggi, in quel momento competente anche sul carcere di massima sicurezza di Spoleto, affollato di detenuti legati a organizzazioni criminali e quindi assoggettati al 41 bis, il 4 novembre 1994 racconta ai parlamentari della Commissione antimafia: «Ricordo il caso di un soggetto, che ora è stato sottratto a tale regime, il quale arrivò al punto da tentare il suicidio sostenendo di non essere mai appartenuto alla mafia e di non sapere neanche cosa fosse quest’ultima: era un rapinatore qualsiasi che era rimasto coinvolto nei maxiprocessi di Palermo».
Alessandro Margara, ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (il Dap), all’epoca presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze (che comprendeva anche le prigioni per mafiosi di Pianosa e Porto Azzurro), ai parlamentari segnala che il 41 bis è stato usato con «manica troppo larga»: «C’è stato un primo periodo di applicazione non propria della norma» racconta il 26 ottobre 1994 all’Antimafia. «Si è detto che è necessaria una motivazione specifica e individualizzata in questi provvedimenti: ma su che cosa? Che cosa legittima l’applicazione del 41 bis? Dalle esigenze di ordine e sicurezza pubblica indicate nella norma si è ritenuto che la stessa debba riferirsi ai capi e ai quadri intermedi delle organizzazioni criminali, che avevano quella capacità di mantenere le aggregazioni interne e i collegamenti esterni per neutralizzare la quale la norma è stata scritta. È un problema che si è aperto nelle decisioni del tribunale di sorveglianza cui appartengo e che ha portato a escludere la conferma dell’applicazione a chi si riteneva avesse solo un ruolo puramente esecutivo».
Adalberto Capriotti, un altro ex capo del Dap, parlando davanti all’Antimafia il 28 ottobre 1994 stima le dimensioni del fenomeno in quel momento: sono 184 i provvedimenti giudiziari che a cavallo fra 1993 e 1994 hanno riguardato il regime del 41 bis. In particolare, 88 hanno annullato completamente il carcere duro e altri 96 ne hanno ridotto le rigide limitazioni. Non per ordine della mafia, ma in base alla libera valutazione di un giudice.