Michele Smargiassi, la Repubblica 27/11/2012, 27 novembre 2012
DUE SCATTI NELLA STORIA
[Le polaroid di Moro che segnarono il destino delle Br] –
Il sequestro di Idalgo Macchiarini dura solo venti minuti di quel 3 marzo del 1972. Il tempo di trascinare il dirigente della Sit-Siemens nel vano soffocante di un furgone Fiat 850. Il sequestrato viene avvertito che sarà rilasciato subito dopo lo scatto di «una fotografia che avrebbe riprodotto in milioni di copie, su tutti i giornali, il nostro messaggio», rievocherà vent’anni dopo Renato Curcio. Il furgone è un set. La pistola che nell’immagine appare minacciosamente puntata alla testa del prigioniero è un attrezzo di scena, «un vecchio arnese rugginoso che forse non poteva neanche sparare. Gli spiegammo che quel gesto simbolico non significava minimamente una minaccia per lui».
Jean Baudrillard non aveva ancora scritto le sue
Strategie fatali, ma le incipienti Brigate Rosse già le praticavano artigianalmente, mutando la rivoluzione in simulacro, in immagine prodotta e da consumare come puro spettacolo. Sei anni dopo, quella strategia culminerà nelle due fotografie più drammatiche e indimenticabili della nostra storia recente: le due polaroid di Aldo Moro nel carcere brigatista di via Gradoli.
Le due Sindoni della prima Repubblica. Due immagini che continuano a incombere sull’immaginario di un intero paese, a tormentare molte coscienze (incluse quelle di alcuni politici viventi) e a sollecitare letture intenzionate a svelare almeno un po’ il potere misterioso che emanano ancora, trentacinque anni dopo. Due libri quasi in contemporanea ci provano adesso: Le polaroid di Moro, volume a più voci riunite da Sergio Bianchi e Raffaella Perna per Derive Approdi, la casa editrice che eredita la cultura dei movimenti degli anni Settanta; e Da quella prigione di Marco Belpoliti, riscrittura, per Guanda, di un piccolo saggio già uscito alcuni anni fa. Un punto di vista politico, un punto di vista analitico che convergono nel racconto di una vera e propria guerra di, per e con le immagini, dalla quale i brigatisti uscirono imprevedibilmente sconfitti, e non dal mostro- Stato che doveva essere colpito al cuore, ma dal semplice sguardo dell’uomo che fu scelto per esserne il simbolo sacrificale.
Quelle due istantanee avevano, entrambe, uno scopo primario molto pratico. Dovevano certificare l’esistenza in vita del leader democristiano, la prima subito dopo il rapimento sanguinoso, la seconda dopo la falsa notizia della sua esecuzione con seppellimento al lago della Duchessa. Ma le immagini non sono mai puri documenti, sono veicoli di sensi sovrapposti, alcuni deliberati, altri nascosti e preterintenzionali. Per i carcerieri di Moro, l’immagine del «gerarca teorico e stratega del regime», in abiti dimessi, sovrastato dalla stella proletaria, aveva anche una missione iconografica chiara: detronizzare simbolicamente il sovrano, umiliare la sacralità del potere. I «fotografi pubblicitari delle Br», come li qualifica senza ironia Belpoliti, gestivano una comunicazione visuale parallela a quella dei prolissi comunicati numerati della loro “direzione strategica”, una sfida più sottile, perché meno carica di retorica ideologia, rivolta al mondo dei media, che in quei cinquantacinque giorni fu il vero campo della battaglia. Ne erano sicuramente consapevoli, perfino con ironia (la prima polaroid fu fatta trovare sopra una cabina per fototessere in un sottopasso di largo Torre Argentina).
La posta in gioco era molto alta e il gioco molto sofisticato. Noi parliamo di “due polaroid”, ma come tali quasi nessuno le ha mai viste. Gli originali a colori di quelle immagini, prodotte grazie alla tecnologia delle foto a sviluppo istantaneo, che elimina il ricorso a un laboratorio (come ricorda Giovanni Fiorentino, una qualità cara ai gitanti, ai pornografi casalinghi e, appunto, ai rapitori), giacciono ancora, inaccessibili, nei faldoni della magistratura. Le due immagini di Moro che milioni di persone hanno scolpite nella memoria sono in realtà i cliché retinati, in bianco e nero, che apparvero sulle prime pagine di tutti i giornali italiani, e poi continuarono a riapparire in infinite repliche, via via iconizzate come sfondi di telegiornale, manchette di quotidiano, illustrazioni per poster, striscioni, volantini. L’ebbrezza di Curcio nell’immaginare quella «riproduzione in milioni di copie » si concretizzava trionfalmente. La stella a cinque punte (che solo alcuni giornali stranieri, chissà perché, ebbero l’idea di rifilare via dalle immagini pubblicate) diventava così un brand rivoluzionario di successo, gratuitamente moltiplicato e universalmente diffuso a cura del nemico stesso.
Erano, ad essere onesti, immagini mediaticamente perfette, perfino nella loro imperfezione tecnica, anzi lo erano proprio per questo, come se fossero state progettate pensando a Warhol (ipotesi che Belpoliti non scarta), erano votate a un potenziale destino da icona pop, come il volto del Che o di Marilyn: non sembri irrispettoso, è invece la prova della loro potenza suggestiva, che uno strascico di ri-mediazioni artistiche (da Rotella a Schifano fino a Cattelan) ha poi portato alla luce.
Ma quello degli iconografi brigatisti fu un trionfo apparente ed effimero. Lo avessero chiesto a un fotografo come Tano D’Amico, che sa quanto sia difficile produrre immagini davvero contro il potere, glielo avrebbe spiegato lui, come fa ora nel primo dei due libri. I brigatisti, dice, apprendisti stregoni dell’immagine, non capirono che la fotocamera non è una cameriera ottusa e ubbidiente. Che la costruzione di un’immagine è un processo che sfugge, in gran parte, all’uomo che spinge il bottone. Che entrano in scena altri attori, altri ingredienti, che giocare con l’immaginario diffuso è difficile. Che il soggetto dell’immagine può essere così forte da rovesciare il gioco. E Aldo Moro lo fu. Spogliato dagli addobbi della casta politica, in quella camicia bianca spiegazzata, non impersonò il potere umiliato ma il cittadino comune, il “povero cristo”. Lo capirono subito un vignettista e un foto-cultore, con due immagini-parodia accolte allora come irriverenti, in realtà geniali: la copertina del Male di Vincino con il fumetto «Scusate, abitualmente vesto Marzotto», e il collage di Ando Gilardi con il volto di Moro sostituito, appunto, da quello dell’uomo della Sindone.
Ma fu soprattutto lo sguardo di Moro, e il mezzo sorriso che asimmetrico pare piegargli gli angoli della bocca in un’espressione di dignitosa resistenza umana e perfino di superiore compatimento, quell’espressione così intensa e diversa dal tumefatto terrorizzato stupore dei suoi predecessori iconografici (Sossi, Amerio, il tedesco Schleyer), che non sfuggì a nessuno, da Montale a Sciascia fino all’uomo della strada, fu quello sguardo a ribaltare il segno emotivo di quelle immagini. E in fotografia, l’emozione è tutto.
Fu dunque Moro, riassume D’Amico, il vero
autore di quelle due immagini. Nelle quali depositava, in modo forse inconsapevole, l’irriducibile «appello assoluto della vittima». Furono, quelle due foto, veri “documenti del contrappasso”, per riprendere la definizione che Sciascia attribuì alle sole lettere dal carcere dello statista. Agli italiani in ogni caso giunse non il ritratto di un satrapo defenestrato, ma l’icona dell’inattingibilità della vita, quasi una trascrizione visuale del monito marxiano, che i brigatisti stavano stracciando, a non trattare l’uomo come mezzo, ma solo come fine.
La storia di quelle immagini non finì come quella di Macchiarini. La “minaccia simbolica” non si fermò sulla superficie della fotografia-simulacro, tornò ferocemente nel mondo del reale. Con l’esecuzione della loro sentenza capitale i carnefici firmarono la propria sconfitta morale e politica, e lo sapevano. Ma se avessero avuto occhi, l’avrebbero già vista in quelle due immagini. O forse fu proprio perché ce la videro che premettero il grilletto.