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 2012  novembre 27 Martedì calendario

DICIASSETTE REGIONI AL LEADER, SOLO TRE AL ROTTAMATORE

Le primarie riscrivono la cartina geopolitica dell’Italia di centrosinistra. E la dividono in tre fasce: il Sud bersaniano; il Nord bersaniano ma punteggiato di renzismo non a Milano (quasi dieci punti di scarto a favore del leader democrat), a Torino e a Bologna e invece a Parma e a Modena sì; il Centro - a parte il Lazio che ha scelto in maniera forte il segretario del Pd e non il suo competitor - che nelle regioni rosse ossia in Toscana, in Umbria e nelle Marche ha tributato un successo poco prevedibile a Matteo Renzi proprio nelle vecchie roccaforti del Pci. Alfredo Reichlin, analista profondo che viene da lontano, e di solida tradizione da comunista italiano che ha scelto Bersani, è particolarmente colpito dai flussi del voto nelle cosiddette regioni rosse e fa una diagnosi di grande realismo: «Fa impressione il dato di Renzi in Toscana, quel suo 52,2. Quelli sono voti nostri, del nostro popolo e non credo di persone estranee venute a votare nei gazebo del Pd. Questo dato significa che la voglia d’innovazione è largamente diffusa all’interno del partito, è una domanda forte rispetto alla quale dobbiamo porci il problema di dare una risposta».
I numeri generali, su 3.107.568 votanti, dicono 44,9 a Bersani, 35,5 a Renzi, 16,6 a Vendola, 2,6 a Puppato, 1,4 a Tabacci. Tra i primi due, 9 punti di distacco, che sono molti, ma in termini di voti la differenza sembra meno abissale. Sono 290.200 quelli che separano il primo classificato (Bersani ha preso 1.393.990 preferenze) dal secondo (Renzi ha totalizzato 1.103.790 consensi). Il gap non è insormontabile. Anche se in regioni come il Veneto si prevedeva uno sfondamento di Renzi, nel tentativo di intercettare leghisti in fuga ed elettori della regione bianca in cerca d’identità, e invece non si è avuta una grande affermazione di Matteo: se non a Verona (primo con il 41,4 contro il 39,9 di Bersani) e a Vicenza (43,5 contro 35).
Già da questi primi assaggi aritmetici, si può tracciare una trend abbastanza generale soprattutto nel Nord: Renzi va bene e in certi casi vince nelle province più che nelle grandi città. Intercettando, ma in maniera parziale e non sufficiente per un’affermazione che poteva esserci e non c’è stata, il consenso di commercianti, artigiani, piccoli imprenditori e lo intercetta dove meno forte è la presenza strutturata del partito. Bersani - che nel Mezzogiorno dà una grande prova di forza anche grazie a un asse con D’Alema assai radicato laggiù e voglioso di dimostrare a Renzi il proprio peso - costruisce il proprio consenso nel pubblico impiego e nel lavoro dipendente. L’Emilia-Romagna è sua: lì sfiora il 50 per cento ma in questa regione così come in Toscana e in Umbria espugnate da Renzi ha molto giovato al rottamatore la lotta intestina all’appartato di partito, anche tra bersaniani contro bersaniani. Nel Mezzogiorno c’è la roccaforte del segretario (si vedano le due capitali: a Napoli prende 46,4, a Palermo il 45,6) e quella parte d’Italia già gli assicurò la vittoria nelle primarie contro Franceschini. La regione più rossa d’Italia è la Basilicata (57 per cento a Bersani) e Salerno (quella della togliattiana svolta di Salerno e la città d’origine della famiglia di Giorgio Amendola) con il 64 per cento a Bersani è il capoluogo italiano dove è più forte il segretario, anche grazie a un grande elettore: il sindaco dalemiano Vincenzo De Luca.
«Mi ha anche impressionato», spiega Reichlin, «il dato di Vendola nelle grandi città metropolitane, da Milano a Roma, a Napoli a Bari» (17,2; 19,8; 22,5; 47,5): «e questo va tenuto ben presente per il secondo turno. Così come il fatto che Renzi si è mosso bene nella campagna per le primarie, soprattutto per aver corretto il tiro rispetto agli inizi. E’ partito con l’appello agli elettori di centrodestra e poi ha cominciato a parlare di sinistra e del suo modo di essere di sinistra». Valutazioni, queste di Reichlin, che spiegano come dopo il secondo turno potrà essere ancora modificata la cartina geo-politica dell’Italia di centrosinistra. Massimo Cacciari così analizza il successo di Renzi in certe aree del Nord e delle regioni rosse: «Ha portato a votare italiani estranei al centrosinistra. E ne porterà altri nel secondo turno».
Tesi in contrasto con l’opinione di Pier Giorgio Corbetta, dell’istituto Cattaneo di Bologna, che domani presenterà una mappa di questo voto: «E’ notevole la cifra dell’affluenza, oltre tre milioni di voti, in un periodo di anti-politica. Se si arrivava a 4 milioni voleva dire che Renzi era riuscito a mobilitare fasce marginali rispetto al Pd. Così non è stato. Renzi è andato bene nelle zone del voto più strutturato e di partito, ha trovato consensi anche nel cuore delle zone del profondo rosso». Per esempio nelle Marche - dove è arrivato primo - s’è imposto nelle province più rosse: Pesaro, Urbino, Fermo Macerata, mentre Bersani ha vinto ad Ancona (42,8) e ad Ascoli (42,9).
I buoni numeri di Vendola nelle grandi città - nella provincia di Roma super-bersaniana (48,4) Nichi balza al 19,8 - raccontano che il precariato della conoscenza, i giovani che fanno lavori immateriali e si concentrano nelle metropoli hanno scelto lui: l’intellettuale pasoliniano, il politico del realismo magico. A Roma l’insuccesso del rottamatore (a Firenze è al 52 per cento) vale il 29,1. Senza la capitale, dove Renzi la spunta in pochi quartieri, dai Parioli a Vigna Clara, non si vince il ballottaggio. Il rottamatore lo sa e ha detto che in questa settimana sarà molto quirita. Sempre che non sia troppo tardi.