Oscar Giannino, Il Messaggero 27/11/2012, 27 novembre 2012
ILVA, UNA PARADOSSALE STORIA ITALIANA
La situazione all’Ilva di Taranto è precipitata, come purtroppo c’era da temere. Ieri la magistratura tarantina ha emesso nuovi provvedimenti cautelari e avvisi di garanzia verso la famiglia Riva, ex dirigenti dell’impianto siderurgico, l’attuale presidente l’ex prefetto Ferrante e politici tarantini accusati di convogliare verso consulenti «amici» e sovrapagati le verifiche ambientali.
Ma a questo si è aggiunto il sequestro di migliaia di tonnellate di lastre e coils di acciaio realizzati negli ultimi tempi, con il divieto di commercializzazione in quanto corpi di reato.
La reazione dell’azienda è stata l’immediata messa in libertà di 5000 addetti alla lavorazione a freddo. Con lo stop totale, entro pochi giorni andrebbero a fermi analoghi per mancanza di acciaio semilavorato proveniente da Taranto gli altri impianti del gruppo Riva, a Genova, Novi Ligure, Racconigi, Patrica. Migliaia e migliaia di lavoratori a casa, il ventesimo gruppo siderurgico al mondo, e italiano, praticamente in ginocchio.
Da mesi, non hanno sortito effetto gli appelli al buon senso, per trovare una quadra in questa paradossale storia italiana. Italiana perché purtroppo si sommano le inefficienze storiche degli apparati amministrativi pubblici deputati ad attendibili verifiche ambientali, di salute e sicurezza, e le tentazioni della politica e dei privati sulle quali la magistratura parallelamente indaga. Paradossale perché non c’è un solo Paese al mondo in cui si rischi concretamente di uscire dall’acciaio, per effetto di ordinanze cautelari della magistratura penale. Per un Paese ad alta intensità manifatturiera come noi siamo e come dobbiamo rimanere, se vogliamo difendere l’unica voce che con il suo export contribuisce a non far ulteriormente sprofondare la crescita italiana, è un’accelerazione verso la decrescita, drammatica perché si parla di trascuratezza decennale per salute e ambiente, ma insieme tragica perché disoccupazione e declino accelerano in maniera rapida ed esponenziale.
I sindacati sono giustamente sul piede di guerra, e a questo punto più che mai il rischio da scongiurare è quello di spaccarsi intorno al ruolo e al merito dei provvedimenti della magistratura. Finora il governo aveva indicato la via di una nuova e rapida Aia, l’autorizzazione di impatto ambientale, ma non ha funzionato. L’esecutivo deve davvero riprendere d’urgenza in mano la vicenda. Mantenere l’industria di base è una priorità per un Paese manifatturiero, anche se l’energia in Italia è carissima. Uscire dall’acciaio aggraverebbe la nostra bilancia dei pagamenti, oltre a impoverirci.
Ma le bonifiche necessarie a Taranto per mantenere la produzione sono estesissime e onerosissime. La famiglia Riva da sola non può farcela, per quanto debba essere incalzata (e lo è, visto il numero dei suoi componenti agli arresti). Occorre da una parte uno sforzo straordinario della finanza pubblica, ancora maggiore di quello sin qui annunciato, del quale una buona fetta era già assegnata al porto. E bisogna insieme riuscire a far diventare questo grande investimento di salute e sicurezza una priorità europea, un modello che valga anche per Germania e Polonia che continuano come noi ad avere impianti siderurgici o a carbone nei centri abitati. Certo, è complicato unire l’aspetto giudiziario, quello economico nazionale e quello europeo. Ma il declino è peggio, mille volte peggiore per l’apparente facilità con cui si scivola oggi dentro per gli errori del passato.