Osvaldo De Paolini, Il Messaggero 27/11/2012, 27 novembre 2012
BANCHE E FINANZA, LA VERITA’ DI GERONZI
«Confiteor, purché senza sottintesi penitenziali», dice Cesare Geronzi a Massimo Mucchetti nel libro-intervista che da domani sarà nelle librerie con quel titolo. Dunque, non una confessione in senso gesuitico, ma un Confiteor rivolto alla comunità, un racconto liberatorio degli accadimenti che in trent’anni hanno trasformato volto e struttura del sistema bancario italiano, ridisegnato la galassia del potere economico e rimodulato l’informazione nazionale sia su carta che in tv.
Un racconto choc, 346 pagine dense di rivelazioni che - per quanto si tratti di un punto di osservazione personale e quindi parziale, e ciò non va mai dimenticato mentre si procede nella lettura - spostano non di poco la percezione che fin qui si è avuta di alcuni tra i più oscuri episodi che hanno segnato la storia recente della finanza italiana. Non c’è contrizione nelle parole di Geronzi, nemmeno quando gli si fa notare la circostanza insolita di un banchiere che a fine carriera decide di mettere a nudo gli angoli più rugosi della sua attività.
IL DOVERE DEL BANCHIERE
Anzi, ribatte orgoglioso: «Un banchiere che si spiega paga un tributo di trasparenza verso la società. Assolve a un dovere civico». E lui si spiega bene nel libro-intervista, fin troppo bene in certi passaggi. Tanto che a volte si ha il sospetto che dietro una rivelazione, un giudizio o una precisazione si nasconda un messaggio, diretto chissà a chi. Nè si lesina autoassoluzioni, persino invita i giudici a prendere finalmente atto della sua correttezza. «Cesare Geronzi - dichiara a un Mucchetti che lo incalza - ha sempre e soltanto esercitato le sue responsabilità nel rispetto delle leggi. Quanto ai processi Cirio e Parmalat, sono sicuro che la mia correttezza verrà riconosciuta con i processi d’appello».
Parla di politica, Geronzi, e di intrecci mai rivelati tra finanza e politica. Giudica ridicole le voci che riferivano di un Palazzo Chigi, inquilino Massimo D’Alema, trasformato in merchant bank per favorire la scalata a Telecom dei cosiddetti «capitani coraggiosi» contro gli Agnelli che la governavano con lo 0,6% del capitale. E parla anche di massoneria: non fa nomi, ma confessa di essersi stupito per la capacità di penetrazione di quella organizzazione. E poi racconta di cene segrete d’inizio legislatura consumate nella sua abitazione in compagnia dell’allora premier Silvio Berlusconi, del ministro Giulio Tremonti e del governatore Antonio Fazio. Lo scopo? Tentare di costruire un percorso condiviso tra un ministro dell’Economia pericolosamente invasivo e un governatore della Banca d’Italia - al quale Geronzi non farà mai mancare la sua stima, anche nei momenti per lui più terribili - geloso della propria autonomia e contrario a ogni mediazione sull’integrità della Banca. (Tentativo lodevole, ma che fallirà presto, tanto che in meno di 24 mesi - tra il 2004 e il 2005 - porterà alla decapitazione di Tremonti prima e di Fazio poi, sia pure per motivi diversi). Infine, le sue dimissioni forzate dalla presidenza delle Generali, frutto, a suo dire, di una congiura che stava maturando da tempo, da quando cioè aveva cominciato a rovistare in alcune delicate operazioni sull’estero.
POLITICA E MERCHANT BANK
La precisione minuziosa con la quale nel libro vengono descritti i passaggi tecnici tra un’operazione finanziaria e l’altra, la cura quasi maniacale con la quale vengono segnati i confini di ogni cosa o descritti i bilanci aziendali, virgole comprese, a lungo andare può forse rivelarsi un po’ pedante. Di sicuro è concertata per conferire maggior credito al racconto, ma sarebbe un errore abbandonare la lettura saltando alle pagine avanti: accanto a ogni numero Geronzi propone una spiegazione - ovviamente la sua spiegazione - che però spesso è una rivelazione della quale d’ora in avanti si dovrà tenere conto. Sotto un certa luce, «Confiteor» rappresenta un’opera straordinaria per quanti seguono le vicende della finanza italiana, di sicuro la più intrigante. E comunque la più densa rispetto ai tempi di lavoro che ha richiesto: oltre 100 ore di colloqui in 27 incontri a cavallo dei tre mesi estivi fra Roma, Milano e Marino. A ciò si aggiunga che Mucchetti, non pago delle verità professate da Geronzi, ha compiuto almeno 40 verifiche presso altrettanti protagonisti di primo piano: il che non è una garanzia di verità assoluta, ma certamente rende meno soggettivo il racconto. Peraltro, è una delle rare interviste che invita a meditare, oltre che sulle risposte, anche sulle domande. D’altro canto, da parte di Geronzi non si è trattato solo di ricorso alla memoria: ricordare l’ora e il giorno in cui sono avvenuti episodi, sia pure cruciali, vecchi di quindici o vent’anni è molto difficile. Ci vuole una memoria formidabile, visto che Geronzi ha sempre negato di tenere un diario personale (c’è però chi nutre qualche dubbio). Quale sia il filo seguito da intervistatore e intervistato, grazie a «Confiteor» oggi conosciamo risvolti dell’operazione Toro (costata alle Generali 4,1 miliardi) che fanno meglio comprendere la natura dei rapporti tra il gruppo De Agostini e Mediobanca; oppure, quali erano i veri intendimenti di Matteo Arpe quando da consigliere delegato di Capitalia brigava per una fusione tutta sua, alle spalle dello stesso Geronzi, per poi essere spiazzato dall’amico Alessandro Profumo nell’operazione con Unicredit.
IL CASO MIELI
Si può inoltre scommettere che susciterà polemiche la dinamica attraverso la quale nel 2009 venne detronizzato Paolo Mieli («una eclatante delusione», dice di lui Geronzi) dalla direzione del Corriere della sera. L’elenco degli episodi affrontati nel libro è molto lungo, perlomeno quanto gli accadimenti reali. E termina con la tormentata fusione Unipol-FonSai, in relazione alla quale l’amministratore delegato Alberto Nagel viene definito inadeguato e comunque alla guida di un istituto, Mediobanca, il cui declino appare difficilmente reversibile. (Quanto avrà inciso, su questo giudizio, il fatto che fu proprio Nagel a organizzare il dimissionamento di Geronzi dalla presidenza delle Generali?). E poi ci sono i giudizi sulle persone: taglienti, diretti, talvolta di una crudezza insospettata in un personaggio che in passato ha fatto del linguaggio alto e felpato una religione. Sono pochi i protagonisti viventi che si salvano nel Pantheon personale di Geronzi: Mario Draghi, figura giudicata di grande spessore (ma egli tace sul Draghi ante Bce, verso il quale non sempre ha nutrito stima) e messa in contrapposizione al premier Mario Monti; quindi Giovanni Bazoli, del quale ha una grande considerazione, e Fabrizio Palenzona, verso cui nutre soprattutto affetto. E naturalmente l’amico Fazio. Va detto che l’ex banchiere ha l’accortezza di esprimere valutazioni sulle persone solo dopo aver descritto fatti e circostanze, che fatalmente declinano la qualità del giudizio. E chi sono le figure che egli giudica sopravalutati, non adeguati o che disistima? Ne citiamo solo alcuni perché l’elenco è lungo. Di Nagel e Arpe si è detto, vengono poi Francesco Giavazzi, Enrico Bondi, Lorenzo Pellicioli, Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Corrado Passera, Diego Della Valle, Gabriele Galateri di Genola. Addirittura paragona Dieter Rampl, l’ex presidente di Unicredit, a un topo che ruggisce. Bisogna tuttavia aggiungere che i disprezzati, annota correttamente Mucchetti, disprezzano il disprezzante in egual misura. Ma va anche detto che certi giudizi dell’ex banchiere sono condivisibili tout court.
SOLDI AI PARTITI
Per esempio quando parla del Consiglio di Stato o della Corte dei Conti. Dice a proposito di quest’ultima: «Che dire della Corte, fonte principe dell’informazione anti-casta? Perché i suoi magistrati non intervengono prima dei disastri, quando ancora potrebbero? Nella minaccia dei fulmini della Corte, la pubblica amministrazione trova l’alibi per non fare nulla. Invece di nominare commissari a non so cosa l’economista Giavazzi e il manager Bondi, Monti dovrebbe impostare la riforma dell’alta burocrazia. Ma il governo dei tecnici è infarcito di consiglieri di Stato! E l’allenatore che ha fatto la formazione sa che chi tocca i fili del Consiglio di Stato muore!».
Ma è quando Mucchetti gli chiede conto dei denari ai partiti politici, generosamente finanziati dalla Banca di Roma poi divenuta Capitalia, che Geronzi rivela la sua più profonda irritazione verso la finanza del Nord: ”Trovo inaccettabile questa storia della Banca di Roma al servizio della politica. Ma insomma, Tangentopoli mi pare sia stata edificata a Milano! E queste banche del Nord, che ci facevano la morale tutti i santi giorni, non hanno forse fatto strage di amministrazioni locali in tutta Italia spacciando derivati a poveri sindaci e governatori ignari? Non hanno forse prestato miliardi a spericolati speculatori di Borsa e a immobiliaristi che non sono certo migliori di altri solo perché investono in Lombardia? E quei banchieri l’hanno fatto così, per sbaglio, o perché avevano un tornaconto nei bonus legati agli utili di fine anno che in quel modo potevano pompare?». Difficile dargli torto. Almeno in questo.