Angelo Panebianco, Corriere della Sera 27/11/2012, 27 novembre 2012
Perché il colpo di Stato con cui giovedì scorso il presidente egiziano Mohammed Morsi ha concentrato nelle proprie mani tutti i poteri ha suscitato imbarazzi ma poche proteste da parte dei governi e delle opinioni pubbliche europee? Di quelle stesse opinioni pubbliche, cioè, che, solo due anni fa, avevano tanto applaudito la rivoluzione anti Mubarak? Perché tanta indifferenza per quei poveri oppositori laici scesi in piazza contro la neonata dittatura? Per varie ragioni, la principale delle quali è che non ce la si può prendere troppo con il «pacificatore» di Gaza, lodato, coccolato (e finanziato) dagli americani
Perché il colpo di Stato con cui giovedì scorso il presidente egiziano Mohammed Morsi ha concentrato nelle proprie mani tutti i poteri ha suscitato imbarazzi ma poche proteste da parte dei governi e delle opinioni pubbliche europee? Di quelle stesse opinioni pubbliche, cioè, che, solo due anni fa, avevano tanto applaudito la rivoluzione anti Mubarak? Perché tanta indifferenza per quei poveri oppositori laici scesi in piazza contro la neonata dittatura? Per varie ragioni, la principale delle quali è che non ce la si può prendere troppo con il «pacificatore» di Gaza, lodato, coccolato (e finanziato) dagli americani.Se non sapessimo che le teorie cospirative della storia, per le quali nulla accade a caso ma tutto è riconducibile a un «disegno», a un piano diabolico, sono solo spazzatura, dovremmo pensare che Morsi e i suoi siano geni del male. Dovremmo pensare che Morsi abbia fatto esplodere la crisi di Gaza facendo passare nella Striscia ogni genere di armi, ivi compresi i missili a lunga gittata forniti dall’Iran ad Hamas, allo scopo di presentarsi al mondo nelle vesti del mediatore responsabile e incassare così la legittimazione necessaria per fare un colpo di Stato nella generale acquiescenza. Non è così, la storia procede in modo più casuale. Che i rapporti fra l’Egitto dei Fratelli musulmani e i loro cugini di Hamas siano diversissimi da quelli che intratteneva con loro il regime di Mubarak è un fatto. Così come è un fatto che il successo incassato nella soluzione della crisi sia stata l’occasione colta al volo da Morsi per formulare la dichiarazione presidenziale con cui ha assunto i pieni poteri. Ma conviene escludere il «disegno»: la storia è intessuta di accadimenti e di opportunità che gli accadimenti offrono e che possono essere colte oppure no. Morsi si è rivelato bravissimo nel cogliere l’opportunità. Non sappiamo se la dittatura sarà temporanea o duratura (c’è chi spera che Morsi si comporterà da Cincinnato). Ma sappiamo che di dittatura in questo momento si tratta e che i Fratelli musulmani hanno ora tutte le chiavi, ivi compresa la possibilità di farsi una Costituzione su misura, per imporre un controllo permanente sul Paese. Ci sono equivoci da sciogliere e prospettive da valutare. I Fratelli musulmani hanno vinto le elezioni parlamentari dello scorso gennaio. Il presidente Morsi è stato scelto dagli elettori in giugno. Non basta per dire che l’Egitto è una democrazia? No. Perché la democrazia non richiede solo che i governanti siano stati liberamente votati da una maggioranza. Richiede anche che i diritti delle opposizioni siano rispettati ed esista sempre per loro la possibilità di battere in nuove elezioni i governanti in carica. La democrazia è, prima di tutto, un meccanismo per la sostituzione dei governanti tramite elezioni anziché rivolte armate. Ma se si creano condizioni che rendono impossibile per l’opposizione sfidare elettoralmente la maggioranza, allora la democrazia non c’è o è compromessa. Per questo, ad esempio, sono considerate dubbie le credenziali democratiche del regime di Putin in Russia. Ed è per questo che la mossa di Morsi rischia di pregiudicare il futuro dell’Egitto. Ci sono là oggi le condizioni per l’instaurazione di una dittatura permanente. Si aggiunga anche che se nei Fratelli musulmani convivono, secondo gli esperti, correnti più pragmatiche e correnti intransigenti, va anche messa in conto la pressione esercitata dai salafiti (reduci da un ottimo successo elettorale), la corrente più radicale, e violenta, dell’islam sunnita. È l’eterno dilemma delle democrazie e, a maggior ragione, di quelle allo stato nascente: se a vincere le elezioni è un partito non democratico la sorte della democrazia è compromessa. Per indicare regimi autoritari instaurati con il consenso della maggioranza si parla spesso di democrazie autoritarie o illiberali. Ma la democrazia in senso proprio non c’è in alcuno di quei casi. È probabilmente un errore credere che i Fratelli musulmani egiziani seguiranno le orme del partito islamico turco. La Turchia ha alle spalle quasi un secolo di occidentalizzazione avviata dal creatore della Turchia moderna, Ataturk, e anche una lunga storia, sia pure tormentata e spesso interrotta, di democrazia dei partiti. Il partito islamico turco oggi al potere deve fare i conti con quella storia. Ma nell’Egitto non c’è nulla del genere: nessuna esperienza democratica precedente a cui rifarsi o che possa condizionare i Fratelli musulmani. C’è poi un problema di prospettive. Se l’Egitto evolverà in dittatura islamica, ciò influenzerà tutto il Medio Oriente. I Fratelli musulmani, tallonati dagli estremisti salafiti, diventeranno la forza più potente e diffusa. Quanto tempo occorrerà perché si verifichi un forte riallineamento antioccidentale in tutta la regione? Per non parlare della sorte di Israele. Difficilmente potrà bastare il solito flusso di dollari americani per tenere sotto controllo un Medio Oriente sempre più stretto fra il radicalismo sciita iraniano e le varie forme dell’integralismo sunnita. Non c’è più tempo né spazio, in Europa, per manifestazioni di democraticismo ingenuo. Si prenda atto, ad esempio, che nel caso della guerra civile siriana, l’alternativa non è fra un regime sanguinario e la democrazia ma, più probabilmente, fra i tagliagole di un regime alleato all’Iran e altri estremisti di pari pericolosità ma di diverso orientamento. Meglio andarci coi piedi di piombo. Da ultimo, ci sono gli effetti probabili dell’evoluzione egiziana e dell’accresciuta forza dei movimenti islamisti in Medio Oriente sui rapporti fra l’Europa e l’immigrazione musulmana. È difficile che non ci siano ricadute. Converrà monitorare con attenzione quanto accadrà nei settori più militanti dell’islam europeo.